• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: novembre 2003

Conserva

28 venerdì Nov 2003

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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L’estate poteva ben avere questo profumo di pareti ritinte, o il colore tenero di muri sirena, ma se un colore doveva imporsi sugli altri, se un odore doveva straripare, ad accorpare giorni sempre uguali, quello era il rosso. Della conserva di pomodoro.
Un grosso di forze, richiedeva, che aveva corrispondenza solo nella lavata di primavera, quella con i paioli fuori e lacenere dell’inverno, e con la liscivia quasi turchina, in certe venature.
Un dispiegamento di vasi di vetro usciti da profondità nascoste della casa, forse dalla dispensa, che si prolungava in un sottoscala orrido di ragni solo immaginati.
E stracci, stracci per avvolgere i vasi perché non avesseroa tintinnare, a urtarsi, quando il bollore inventava scoppi di caldo e impennate di schizzi.
Con mani di sangue lavoravano la Dina e le nuore, stanche e accaldate.
L’odore si accampava nella casa, perrestarvi. Acido e dolce, insinuante e vischioso, capace di bucare il naso e lo stomaco. Un languore cavo era il regalo del pomodoro, che si strozzava nelle unghie del tritaverdure, e si gonfiava in bolle compatte nel pentolone in cui sobbolliva.
Erano giorni di agitazione, quelli della conserva. Venivano convocate zie e cugine, persino la nuora lontana, in un concitato desiderio di sfidare il tempo.

Non so quando lo capii. Forse ne ebbi la certezza leggendo lo sguardo con cui la Dina fasciava di dolcezza le sue bottiglie piene. Non c’entrava per nulla la gara quotidiana dei sapori, per far dire agli uomini di casa, quando c’erano, “che buono!”
Dentro alla stanchezza di giornate spese a trinciare e a salare e a pesare, stava tutta la voglia di battere il tempo, di aggirarlo, di chiuderlo in un barattolo.
Conservare, tenere da parte un vasetto di colore, una bottiglia di sole, una cucchiaiata di odore.
L’estate, da riaprire in inverno: metamorfosi di una giornata di nebbia, schizzata col rosso del caldo, della luce.
E’ che avivere in pianura, con la nebbia che già ad agosto ti aspetta la mattina presto, si diventa un po’ matti, o bisogna esserlo, un poco, per inventare.
Indovinare le cose dentro la nebbia è come scoprire il sapore dentro una bottiglia.
Un sapore di vetro che cammina all’indietro e va a scavare una scia. La percorrerà chi ‘ha segnata, chi ne ha posto, dall’altro capo della memoria, il primo sasso. Ma anche chi è stato dentro lascia, testimone o fattorino, compagno o ospite di un’estate rossa rossa di conserva.

La nuora lontana, quella fuori casa, arrivò aggrappata al vespino del figlio giovane della Dina, bello e geometra, il primo ad avere studiato a scuola in casa mia. L’altro aveva studiato sfogliando strade e libri di partito. E l’altro ancora non c’era più. Si attendeva sempre con manifesto piacere l’arrivo di questi zii perché portavano l’eco di una cadenza ferrarese nel parlare e regalavano il senso del lontano, del quasimare, dove, d’estate si poteva andare.
Lei, così bionda, teneva i capelli con il foulard chiaro non annodato sotto il mento ma stretto dietro a fasciare il collo, come la Loren in un film.
Il vestito bianco col collo sciallato sembrava la cosa più lontana dalla conserva che potessi immaginare, era tutte le cose buone e candide del mondo.
Miamamma si lisciò la sua vestaglia scura di pomodoro, prima di salutare la cognata, col dispiacere di farsi sorprendere così, in quella domenica laboriosa, col vestito brutto che non aveva fatto in tempo a cambiare. E addosso il forte della salsa che si rapprende.
Il vestito bianco liberava, invece, un odore felice. Dopo tanto rosso, dopo tanto acido…
Quando abbracciai la zia fui sicura: cose e odori potevano avere complicità, il colore di un vestito sapeva restituire la sua promessa di profumo, quasi di gusto, senza inganni. Dolce su dolce, bianco su bianco. Segreto o sortilegio di pelle. Invisibile.
Finalmente la pace fra cose e odori e sapori, giocata a un crocevia di latte o di giglio, di cipria o di schiuma.
Stretta di pelle fresca e nuvola chiara nel naso, l’abbraccio.
Dentro c’erano tuberose zuccherate, gardenie candite, fra pareti color di crema.
Conquista di armonie, “leggere e vaganti”.

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Le pareti color di crema

25 martedì Nov 2003

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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“Che delizia per il narratore passare dalla terza persona alla prima! E’ come quando, dopo aver usato bicchierini-ditale…, un bel momento…ti decidi e bevi direttamente dal rubinetto l’acqua fredda e naturale” (Osip Mandel’stam)

…e allora vada così

Le pareti color di crema

Erano i peperoni, i pomodori e le cipolle, insieme all’aceto e allo zucchero, a sprigionare un’armonia così intensa che avresti volentieri intinto pane tenero nell’aria. La salsa accompagnava i pasti e si alternava alla fragranza dolce del finocchio tagliato sottile e ben assortito al rosa del tonno.
“Quando mi sposo, a nozze io voglio solo finocchio e tonno”.
Buono, lasciava nel piatto una memoria generosa d’olio, insaporito di fresco fresco, da assorbire con certe rosette di crosta gentile, senza fatica.
A tavola si rideva. “Gli agnolini mangerai”– si scherzava e intanto la Dina mianonna, con geometrica precisione, divideva la carne del pollo, secondo regole gerarchiche, prima gli uomini, poi i bambini e le donne.

Era importante il cibo a casa mia.
Mentre si mangiava, si favoleggiava dei tempi in cui la Dina teneva la trattoria nel paese piccolo.
Venivano i viaggiatori che apposta allungavano la strada pur di godere della sua pasta ben condita e della sua cacciatora, e quelli senza un soldo, che mangiavano e facevano allungare il conto, e qualche volta si portavano un amico. Ma una volta era venuta, per intera, anche l’orchestra del maestro Angelini, che una canzone aveva dedicato alla grazia di tanta cucina.

I ricordi scorrevano sulla tavola e il cibo prendeva altri sapori: diventava il selvatico del fagiano abbattuto con la fionda e si faceva morbido come il burro del vecchio caseificio di casa, che, rovesciato dal secchio, restava madido di piccole gocce di umore. Il burro che la nonna aveva imparato a far da sola, durante il confino in Francia del suo uomo.
Il cibo diventava il cibo di un’altra casa, di altri bambini, di altri racconti, che solo così tornavano in circolo piano piano.
Come per un moto indolente, le storie chiamavano altre storie, che non chiedevano il tepore del camino, ma sbucavano così, un po’ sudate, sulla tavola, col piacere di un uditorio senza fretta.
Quando il giro della memoria aveva già colmato la testa dei piccoli di uno sciame di nomi senza volto, allora miononno e mianonna finivano col parlare l’uno per l’altra, stretti nel loro cerchio di companatico. “Era brava la Dina. Sempre vista a lavorare, da subito. Però quel giorno, con la veste a quadrettini, è pur venuta nella camera buia sul dietro…”
Infuocava mianonna e zittiva il marito con burbere, agrodolci occhiate.

I cibi, in casa mia, erano flauti di ricordi. Invadevano persino i colori, che ne prendevano le sfumature.
Mentre le donne di casa assaporavano la morbidezza di certe stoffe che le clienti di miazia portavano in rotoli o pezze, la Dina sentenziava col suo vocabolario strano.
“Bello questo color crème e questo nocciola, più bello del burro della camicetta della Silvana. No, no, ‘sto giallo è troppo zabaione. Ma che sfacciato ‘sto sangue di bue, va bene solo per le bistecche”…

I colori si portavano dietro l’ombra, il fantasma dei cibi e il mondo, stoffa o muro, capello o fiore si caricava di una pastosità di fiaba, di pareti di marzapane e di tetti di biscotto.
Così le cose finivano per non essere cose: rivestite di panna, burro o nocciola, di zabaione o di carta da zucchero, si facevano dolci e belle, quinte per giochi di fantasia, in un mondo che si poteva annusare e gustare.

Quando vennero i pittori perla cucina e le donne decisero il color di crema , misi un dito dentro il secchio dove il colore schiumava di latte e, mosso da un bastone, diceva consistenze impensate. Assaggiai, ma non c’era sapore di vaniglia, solo un salato freddo. E un odore di pulito di calce, che non compensava la bocca amara.

Segnature

23 domenica Nov 2003

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Ci sono luoghi di “antiche paludi”, di terra mobile e crepata, di acqua ferma in bracci morti, di acqua viva sotto il ponte, come un’unghia che graffia.
Ci sono case che resistono e fanno pieno contro l’orizzonte, scarnato in fili di pioppi: in cima una cresta di foglie gialle.
Ci sono cieli duri, di cartone grigio, macchiato di umido.
E ci siamo noi, a misurare distanze sulla banca mezzana dell’argine, più in alto del fiume, più in alto dei campi.

Con Elia Malagò (da Pita Pitela):

“noi di antiche paludi:
le lunghe attese che si alzi la nebbia
a mostrare di nuovo i campi di cipolle
rigati a novembre
con la schiena curva e il passo lento
scegliendo nelle mani di fango e viscida schiuma
le radici pronte a sfidare l’inverno
scavando sotto la terra sentieri
di tepore
nascondigli alla brina
succhiando le torbe fino a una
vena sottile che attraversa
gli argini e si scalda aggrappandosi alle fondamenta
di case (le pareti aggredite da perle luminose che stillano
gocce di sortìa e asciugano poi in una
leggera barba di salnitro bianco)

E la nostra terra è questa ragna
impazzita che pompa argilla di ferro

ricama segreti legami
passaggi senza ordine a violare tutte le direzioni
noi attraversati dall’avventura”

(Dedicato agli amici che rendono piccole le distanze e regalano tangenze preziose, a fare più morbida la vita)

Storie bugiarde

19 mercoledì Nov 2003

Posted by colfavoredellenebbie in margini

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La locanda è giusto sotto l’argine vecchio, dove il Po s’è mangiato l’isola e gufa sotto le finestre, fra zucche selvatiche e salici sfatti. C’è, da sempre, la locanda.
Cosa c’entrino i mori col suo nome, s’è perso nel tempo, ma la storia delle bugie, quella no, quella viaggia sospinta da spifferi sotto le porte, quella è incollata ai muri, nelle righe dei tavoli, di legno tenero.
Si dice che, indietro, nel tempo, i viaggiatori piegassero qui per quelle trippe tenere e rosee, appena spente dal parmigiano, o per le tagliatelle mostose di sugo, ma più ancora per le storie contate da lui, quando il vino pesava su occhi e pudore e scioglieva la lingua.
San essere belle le storie bugiarde, che ogni volta aggiungono un tocco, un colore, a sostegno di memorie smagliate.
Sul tardi il vecchio, il padrone della locanda, pungolato da una domanda o solo seguendo una musica, si metteva a contare della caduta del re, di quando in trincea scivolò nella malta e lui lo trattenne e sospinse, con materna manata e grande sorriso.
“A son Guidu”, gli disse e il re rispose “Vitorio”, come uno di casa.
E di Vitorio il vecchio parlava come fossero andati a caccia, sul Carso, oa tinche nei canali d’acqua dolce. E si spiaceva nel pensarlo da solo nel palazzo di Roma, a guerra finita.
Ci andò, col treno, e stette a piazza Venezia, ché doveva farsi al balcone, Vitorio. E quando in piazza, di gente ce ne fu tanta, il terzo giorno, il re si affacciò, vide il fante salvatore lì sotto, si sporse, e gli disse, forte,… “Ciau Guiduuu, cusa fet chiiiiii?”
Questo raccontava Guidu Cusafetchi nelle sere fredde scaldate dal clinto e nelle sere calde, molli d’anguria.
D’estate le storie facevano il giro dell’argine e duravano nell’aria con l’eco delle risate.
D’inverno, nello scuro sbiancato di nebbia, erano fanali di voci.

Oggi

16 domenica Nov 2003

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Oggi, c’è poco da uscire a navigare nella nebbia, che pure le sue soddisfazioni le dà: l’odore in bocca di fumo dolce, quasi di respiro.
Solo, ci sono mattine, a novembre, che già indovini come sarà la sera. Ci sono mattine che sembran pomeriggi e il tempo ti pare portato via.
Dopo quella falsa dell’estate di san martino, il sole se ne va.
Il mattino si fa strada con una luce stupita e orfana, incerta fra il brillare e lo spegnersi, si guarda attorno e s’abbassa.
In quell’attimo d’incertezza, di colpo, tutto prende a respirare e soffiare e sgravarsi di un vapore né pesante né leggero.
Acqua di canali o terra, non fa differenza: non sai più a chi o a cosa appartenga l’odore di fumo dolce.
Non l’hai sentita arrivare, la nebbia. Sta sulla pelle e basta, perché è fiato vivo.
Sai che la fumanela diventerà fumana, la sera. Ma, intanto, le rose sono ancora rosse.
Non importa sapere che è questione di poco.

Blog – Comunicazione

14 venerdì Nov 2003

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Qualche blog, compreso il mio, è stato invaso da commenti anonimi, cui seguivano indirizzi di blogger amici. E’ successo che alcuni commenti anonimi, comparsi su altri blog, fossero seguiti dal mio url. Ecco, vorrei dirvi che non li ho scritti io. Nessuno. Qualcuno ha giocato. Tutto qui. Buona notte.

del mondo e altre cose…

13 giovedì Nov 2003

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Volevo scrivere stasera un raccontino sfilato sfilato, ho gli ingredienti qui, a portata di tastiera: un po’ di tempo, la casa quieta con la luce giusta, una storia che mi gira in testa e chiede di uscire, una figurina abbozzata che è lì, a premere fra i ricordi e le vicende di casa mia.
Eppure non ci riesco.
Stasera non riesco a chiudere fuori il mondo.
Stasera ho l’inquietudine della non speranza.
Stasera sento la fatica da mondo reale.
La mia storia resterà dentro ancora un po’.
Ora c’è da sospendere e accogliere il pudore, davanti a immagini-urto nello stomaco, a parole-pietre che rotolano dai televisori e dai giornali, a ricordare che, in uno stillicidio quotidiano, “quella” guerra non è mai finita.
C’è da raccogliere il fiato, tutto quello che c’è, per continuare a dire, forte, la cosa più semplice del mondo: dalla guerra non può nascere niente di buono, dalla guerra non nasce niente di buono.
Mi chiedo che uomini saranno i bambini della guerra di oggi, quelli che hanno mangiato panee paura, non pane e luna,… pane odio, non pane e aquiloni.
Mi dico che la pace, se fosse un uccello, ora sarebbe uno scricciolo infreddolito.

di civette, paure & ricordi

10 lunedì Nov 2003

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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(dove un timidissimo “io” si prende un po’ di spazio, per poi tornare nella nebbia)

Stanotte, la civetta.
Stride (o piange) su un tetto. Sveglia paure bambine, di presagi e cieli neri.
Le paure che accompagnano i ricordi assomigliano alle paure bambine. Sono il terrore di perdere qualcosa, quando, invece, non si vorrebbe lasciar andare nulla, neppure le pieghe dei segni.
Torno spesso ai ricordi: tocco porte che si aprono piano, con la promessa di non disturbare e di richiudere per bene.
Non so mai chi troverò dietro la porta e non so chi perderò, portato via dal tempo.
La paura batte, trattiene sulla soglia, perchè rende così deboli, ma così deboli, il ricordo.
Più ricordo, più amo.
Si rinnova, ogni volta, così, il sogno del trattenere.
Illusione di un meraviglioso baratto: cedere tutti i verbi intransitivi, persino il restare e il durare, pur di trattenere.
Trattenere.
La paura è che quel secchio, che sa di poesia, scompaia, appena toccato.
In un attimo, in quell’attimo, la memoria diventa rimpianto. Magro bottino, quello del passato, se è sigillato dal rimpianto.
Il rimpianto sa di pianto. Fa troppo rumore.
Non devono far rumore i ricordi, devono scivolare, fuori dal secchio, fuori dalla porta, umidi pesci assonnati.
Non sopportano i rimbombi.

Che la scrittura, allora, li prenda, ma assottigli la voce, fino al bisbiglio.

Bucato

07 venerdì Nov 2003

Posted by colfavoredellenebbie in margini

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C’è una vecchia che vive da sola, qui.
La sua casa fa angolo e strada: trattenuta nei muri, fra ricami di chiocciole e muschio, libera il fiato nel giardino di siepi e peonie.
Tiene, la vecchia, un baule, col corredo a orlo giorno, cifrato di pieni e di vuoti.
Non sposa, la vecchia sfoglia il corredo come l’album del tempo: da strati di carte sottili escono lenzuola dal risvolto prezioso, tovaglie di tela buona, camicie lunghe di pelle d’uovo, coi bottoni davanti, per la grazia di carezze leggere.
La vecchia scuote un poco i cristalli d’odore, cambia le spighe e ripiega le cose, sui solchi certi.
Ma, una volta in un anno, quando il sole è proprio sicuro, perché il vento storna le nubi, fa il bucato grande… e il corredo ondeggia sul filo… e si gonfia… e il giardino fiorisce di pagine bianche.
Chi passa vi legge parole mai dette, bisbigli solo sognati, promesse non sussurrate, segni di corpi che non si sono trovati, in un baleno d’amore.
Chi passa segue con gli occhi le mani di vecchio uccello, in corsa a spianare ogni piega, a stirare sul filo la vita che non è stata.

partenze

05 mercoledì Nov 2003

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Da Elia Malagò e dalla sua “pita pitela”, i giorni di novembre, che spingono alle partenze, ai traslochi, nel segno dei santi e dell’odore di uva e di castagne, le prime che scottano la lingua:

“Come mezzadri e bovari siamo partiti
tutti
ragazzi di palude
le labbra strette di fatica o forse lacrime

tra settembre e novembre
nei giorni dei santi del crocicchio
e del bosco

Uno per volta alla stazione affondata nella
campagna
la voce rauca a dire sola andata
per case affollate strade di città forestiere
la valigia
soprabito nuovo e scarpe patinate

E abbiamo visto dal treno
le biciclette appoggiate ai cancelli
la faccia china a misurare
la forza delle braccia e la distanza dai sassi
gli occhi fissi alla strada per non cadere e salutare

Noi a immaginare le mele acidule e un poco selvatiche
nelle ceste di sanmichele grappoli d’uva
assaliti da api e ronzii sottili
alla fine dei filari

l’augurio di tre caldarroste e
lupini lasciati per giorni a macerare in un sacco
appeso alle chiatte del traghetto
attraverso tutta la corrente del fiume
un largo viaggio che si snoda tra sponde
di rabbia
sanmartino riempire il letto
di vortici e spume che invadono i sentieri
del bosco
e allagano golena”

02 domenica Nov 2003

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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margini

 

La fuga 

Bisogna andare indietro nel tempo per incontrare il padrone della casa gialla, quella che è a un passo dalla strada e, ora, la sera, ha solo un occhio aperto.

Aveva una bella terra, stesa fra la fornace e la canonica del prete, il solaio col tappeto di mele campanine, che sanno di erba tagliata, gli alberi da frutto sul davanti, il grano dietro, e, di fianco, la stalla piena.

E aveva tre figlie di pelle chiara, gli occhi sfrontati e quel modo di carezzare i capelli con la mano che è già una promessa.

Era geloso il padre.

Se le covava mentre ricamavano la dote, la sera, e le ascoltava parlare di punto croce, punto ombra e gigliuccio. Avrebbe chiuso il portone con la mandata perché non gli scivolassero via.

Pure montava la guardia, la notte del trenta aprile, quando i giovani portavano il maggio con fasci d’erba alle ragazze generose, con rose a quelle desiderate e con furti di badili e biciclette rugginose ai padri di tanta grazia.

Smarriva i pretendenti, guardati da tende e finestre buie, e fermati in piazza la mattina dopo. 

Ma a ballare le ragazze ci andavano, alle feste di paese, oh se ci andavano, con le vesti fine e le calze di seta, di nascosto sul carro del fattore, ammolcito con sguardi di lunghe ciglia.

 Una sera, dopo la musica, la più grande non tornò.

Si regalò l’amore.

Venne al mattino, con gli occhi fieri e la bocca rossa, per mano di chi  se l’era presa, per la sua casa, un poco più in là, dietro la curva.

Il padre, che aspettava sulla porta, non ascoltò il ragazzo che chiedeva, fissò la pancia della figlia, le facce delle altre.

Non disse niente.

Entrò nella stalla, carezzò i fianchi delle tre mucche bianche, le più belle e ampie, con lo straccio cancellò i loro nomi di gesso e, per ciascuna, scrisse il nome di una figlia.

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