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La fuga 

Bisogna andare indietro nel tempo per incontrare il padrone della casa gialla, quella che è a un passo dalla strada e, ora, la sera, ha solo un occhio aperto.

Aveva una bella terra, stesa fra la fornace e la canonica del prete, il solaio col tappeto di mele campanine, che sanno di erba tagliata, gli alberi da frutto sul davanti, il grano dietro, e, di fianco, la stalla piena.

E aveva tre figlie di pelle chiara, gli occhi sfrontati e quel modo di carezzare i capelli con la mano che è già una promessa.

Era geloso il padre.

Se le covava mentre ricamavano la dote, la sera, e le ascoltava parlare di punto croce, punto ombra e gigliuccio. Avrebbe chiuso il portone con la mandata perché non gli scivolassero via.

Pure montava la guardia, la notte del trenta aprile, quando i giovani portavano il maggio con fasci d’erba alle ragazze generose, con rose a quelle desiderate e con furti di badili e biciclette rugginose ai padri di tanta grazia.

Smarriva i pretendenti, guardati da tende e finestre buie, e fermati in piazza la mattina dopo. 

Ma a ballare le ragazze ci andavano, alle feste di paese, oh se ci andavano, con le vesti fine e le calze di seta, di nascosto sul carro del fattore, ammolcito con sguardi di lunghe ciglia.

 Una sera, dopo la musica, la più grande non tornò.

Si regalò l’amore.

Venne al mattino, con gli occhi fieri e la bocca rossa, per mano di chi  se l’era presa, per la sua casa, un poco più in là, dietro la curva.

Il padre, che aspettava sulla porta, non ascoltò il ragazzo che chiedeva, fissò la pancia della figlia, le facce delle altre.

Non disse niente.

Entrò nella stalla, carezzò i fianchi delle tre mucche bianche, le più belle e ampie, con lo straccio cancellò i loro nomi di gesso e, per ciascuna, scrisse il nome di una figlia.