• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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Archivi Mensili: dicembre 2003

La filastrocca da li boni festi

31 mercoledì Dic 2003

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Dedicata alla mia amica Laura che, bambina, capelli corti e occhi fra il verde l’azzurro e quanto altro può far pensare al cielo, si camuffava da maschio per andare a cantare, assieme a suo fratello, le buone feste (cosa permessa solo ai ragazzi) e si faceva un po’ di mancia.

Dedicata agli amici e alle amiche di sempre, che affollano i divani di casa nostra, la domenica mattina, per transiti quieti e inquieti di parole vecchie e nuove, a quegli amici e amiche che costringo a lavorare o a parlare di lavoro anche quando non vorrebbero, a quegli amici e amiche che, quando mi sentono dire… “avrei un’idea…”, non scappano anche se la camicia non gli tocca la pelle…

Dedicata agli amici di blog, che regalano imprevisti tepori alla vita con le loro parole e i loro pensieri e sanno oltrepassare il monitor, in tutta naturalezza.

bon dì da li boni festi
e dal bon cap ad l’an
ca scampèghi sent an e sent dì
e la bona man l’am vegn a mì…

buon anno a tutti

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Il campo

27 sabato Dic 2003

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Il tempo del campo degli zingari si viveva con trepidazione.
Si chiudevano i pollai con cura, perché gli zingari sono palpagalline.
Ci mettononiente a rubarle e a lasciar lì le penne, come uno sberleffo.

Noi bambine dei viale temevamo per le galline, ma ci piacevano anche gli zingari, pure se tradivano di persona le fantasie che Bolero o Grand Hotel disegnavano per noi. Sui giornali le zingare dei fumetti avevano teste ricciute e grandi seni che le camicie scollate neanche trattenevano e grandi anelle alle orecchie. Le nostre, del campo della stazione-porto, erano piccole e scure, con le caviglie sporche e petti scarni,un bambino appeso. E capelli strapazzati e crespi, lunghi lunghi sulla schiena.

Se ti passavano vicino restava nell’aria un odore fitto di vecchio, di panni mal asciugati e di antichi sudori. Abbassavo il palato e trattenevo il fiato per tenere lontano l’odore, che pure si ingentiliva di spezie.

Ma quando c’erano le nozze gli zingari erano diversi. Carovane mai viste chiudevano il campo alla vista. Bisognava andare vicino per vedere e non fingere sguardi sussiegosi, come se ci si trovasse a passare per caso.

Era bella, la sposa. Le avevano alzato una tenda bianca fra i pioppi e intorno carrozzoni e cavalli con gli zoccoli piumati riposavano.

Fu facile andare.
La prima luna turca della mia vita, alle nove di sera di un maggio di zingari, tanti, qui e lungo le strade, nastri di voci e di occhi scuri.

La paura è solo in cuori di ombre.
E non è paura il grido del sangue, veloce a battere, e neppure le corse del cuore.
Non è paura.
Ci vuole un premio a chi attraversa la strada da sola e, pesante di bugie recitate nella casa grande, spia la sposa degli zingari, da sola e di sera, al bosco della stazione porto, dietro i tubi di ferro.
E prepara il suo tradimento.
Niente amiche quella sera. Basta.
Niente aspettare tenendo d’occhio la strada della chiesa. Basta.
Da sola, senza maschi, perché poi non tengono neanche il brodo e vanno a inventarsi chissà cosa.
Nessuno, per avere un vero segreto da raccontare.
Altroché il rosario…
E allora ci vuole almeno il premio della non-paura, anche se le gambe non lo sanno e fanno prurito di nervoso.
E l’idea d’aver fatto finta di niente a casa e di aver detto “vado a giocare” sta diventando di marmo.

Ma è bella la sposa, ferma e seduta con le collane al collo e un piatto di carne in mano.
Col vestito bianco, bianco come le camicie degli uomini che ballano sotto la tenda.
Si può restare anni a guardare.
E che veli sottili le vesti delle donne che arrivano a terra, soffiate dalle arricciature. Rispondono morbide ai loro gesti di regina. Ma allora esistono anche gli zingari ricchi, di veli e di ori, e questi non portano via i bambini. Ne hanno tanti, e belli. Cosa se ne fanno di altri bambini?
Questi hanno anche la radio senza fili e le fisarmoniche.
Sono grandi le ombre degli zingari sulla tenda, e sembrano ciclopiche idre marine le donne, dalle braccia danzanti.

Il braccio sulla spalla, da dietro, pesò e graffiò, di colpo, come una scossa, una frustata di ortiche.

Non è paura.
È molto peggio.
È come vivere tutta la vita in un secondo.
Non ci sono più feste e zingari ricchi. Solo sacchi e carrozzoni e schiaffi e catene e vestiti sporchi e scarafaggi.
Di più: pipistrelli intrappolati nei capelli lunghi e pasticciati come quelli delle zingare povere.
Lunghissimi capelli.
E già mi vedo piccola fiammiferaia, io: per le strade, a chiedere l’elemosina, a scaldarmi coi fiammiferi, al freddo, e a piangere la sera, mentre la carovana va… ma dove va poi sta carovana…

“A casa, andiamo a casa”
Il nonno mi prese per mano.
E io, e io …io ero contenta di avere i capelli corti.

Rosari

22 lunedì Dic 2003

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Maggio bisognava sentirlo nell’aria, tiepida e ruvida, delle prime sere in cui si tornava in strada, con l’agitazione nelle gambe e la voglia di agro in bocca.

C’erano steli di vetro, dalla foglia a cuore e dal fiore rosato che, a masticarli, strizzavano la bocca come un limone. Le bambine ne spettinavano i ciuffi per farne ripiegate scorte, che ricordavano il sapore sgraziato delle mirabelle colte fra il verde e il rosso.

La sera cominciava con l’agro degli amici del sole.
Mianonna li chiamava così i suoi fiori rosa, tanto belli di giorno e inspiegabilmente spiegazzati la mattina dopo.”Non fanno razza, questi fiori, non fanno razza. Ieri ce n’era di più. Ieri erano belli gli amici del sole… “-e guardava e si disperava, e chiamava all’appello nomi strani che facevano, del giardino, un fisso di fiori dell’amore perfetto, di tazze e di orecchini della Madonna, di gialli artigli del diavolo e di ballerine, e di serenelle, e di sogni di poeta….
Anche le ballerine di maggio mangiavamo volentieri, perchè in fondo in fondo tenevano una lacrima di miele-latte, e pure mangiavamo la madresilvia, prima che diventasse gialla, a compensare la bocca impastata d’aceto.

Le sere di maggio cominciavano alle nove. Bisognava aspettare che le bambine del viale tornassero.
Alle otto andavano al rosario, con la testa piena di giochi e di segreti da passare in rivista nel tratto breve dal viale alla chiesa.
La gelosia covava in chi restava fuori dal cerchio.
Chissà di che cosa parlavano le altre, e che risate si sarebbero fatte. E chi avrebbero visto in chiesa. mentre il prete latinava dolcissimi suoni ….
Mi pareva che dovessero essere profumate e leggere le parole del rosario.
E stupivo nel vedereche la gente passava indenne attraverso questa galleria di miracoli e tornava a casa uguale a prima, persino senza odore di rose o confetto…

Rosario.
In casa mia non era parola da dire qualcosa. Forse bastava chiedere per andare. Ma perchè chiedere?
Alle otto di sera mica si andava in chiesa, da noi. Si aspettava la tavola, le si girava attorno col divieto di sedersi, fino al momento in cui, ultimo , appariva il nonno, diritto e bello negli occhi chiari, soddisfatto della partita al caffè, giocata non chi aveva già cenato.
“Potevate cominciare”- rideva, già pago che fosse avvenuto, di fatto, il contrario. Ci fosse stata una scelta…
La Dina mianonna vegliava la tavola, che guai ad avvicinarsi. E i piccoli di casa avevano un bel lanciare occhiate implorantie correre in strada, per avvistare alla curva del viale il disegno del nonno. Niente. Solo il suo fischio leggero metteva fine al corteggiare.
Si era insieme nella famiglia grande, col nonno supplente di figure maschili forzosamente lontane, chioccia e setter in questa manata di donne e bambini.
Si parlava, si parlava, ma intanto, mentre mangiavo il latte col pane, pensavo che sarebbe stato bello e puro pregare nella Chiesa scura.

Da noi si ragionava in un altro modo, l’inferno e il paradiso stavano in terra, a casa mia, e le preghiere piacevano poco.
Nei funerali e nei matrimoni, gli uomini di casa mia erano fuori, sul sagrato, in attesa, a parlare del loro dio uomo, senza entrare in chiesa.

“Vermi della terra, siamo. Lascia una mela, un giorno, due giorni alle mosche e fa i vermi.”
La mela e i vermi furono per molti anni la mia misura della creazione.
E pensavo a come doveva essere grande la mela del mondo e che buchi strabuchi doveva avere, dopo che tutti se ne erano usciti a strisciare sulla buccia.

Gli uomini di casa questo pensavano e mianonna si rabbuiava in occhiate truci per i senzadio.
Eppure io non riuscivo a vedere peccato.
Mio papà e mio nonno non erano brutti e schifi come i senzadio dei racconti che si leggevano a scuola. Uno era morto perché bestemmiava e non andava in Chiesa e la catena del diavolo gli stringeva il collo, invisibile… Guardavo i miei di nascosto, per vederne lo star male, almeno una piega, un soffoco.
Ma non c’erano segni, solo qualche stranezza nel fare.
Di demonio, niente.
Sì, solo qualche stranezza.
Chi parlava, ad esempio anche agli zingari ? Loro, nel paese.
Si dava mica solo alla vecchia lavandaia che chiedeva le croste di formaggio, ma andava a casa con i pentolini pieni… Si dava anche agli zingari, che da sempre lasciavano sul muro del cancello un segno col gesso, un fiore o un’ala, chissà. E dicevano fra loro che il nonno era un baro gagé, uno mica zingaro ma bravo. Avevano anche perdonato la Rosa miamamma che, un giorno, aveva preso una piccolina che girava per l’elemosina e se l’era lavata, e ravviata e rivestita.

Tanti zingari, a onde larghe di tempo, alle porte di casa mia: venivano al paese per via di una regina morta proprio qui e qui sepolta.
Noi bambini si aspettava la festa dei matrimonio, quando, riuniti per giorni, mangiavano bevevano e cantavano con parole di strano cuore. Il tempo rubato ai compiti era tutto per il campo, dove ci si appiattava dietro alberi grandi .

Quando il matrimonio capitava, e una volta a maggio capitò, chi più invidiava il rosario delle altre…

Buonanotte

19 venerdì Dic 2003

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Buonanotte, con le parole di un amico fantasticante:

Casa del vento

Lunatico cantatore il vento. Sua casa è una sfera.
Ruota e oscilla la sfera e brilla. Ha le variazioni che piacciono al vento. (Le ha conosciute movendo le acque le erbe del mondo).
Soffione e tanto qual è, nella sua casa entra per una fessura il vento, via via si assottiglia in un refolo un alito, e canta. Per tutta la sua lunghezza canta la notte di lunanuova, entrando. Maestoso dentro la sua casa quella notte fa le prove.
S’è portato i pollini per ciprie e le paglie da parrucca.
Suonano improvvisi forte dei campanelli. Mezza sfera si solleva per fare da sipario, l’altra calotta è palcoscenico. Vi fa balenare i fatati il vento prestigiatore.
Dal primo al ventinovesimo li attira a sé la luna li sottrae. Il frenetico prestigiatore non sa, preso lui stesso dalla prestigiatura. Gli cala sulla testa il sipario di calotta, si vede solo nella casa delle variazioni, sfinito e truccato s’addormenta.
Oscilla a tempo di sonno la sfera.
Ma viene un’altra più acuta sonagliera.
Esce dalla sua casa il vento, si prende le nubi si esalta e canta.
Gli resiste la lunacalamita, popolata di fatati e fantasie. Non la terra che è pensante.

(Gianfranco Maretti Tregiardini)

Occhi di melanzana

16 martedì Dic 2003

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I primi giorni di vacanza rintronavano nella testa, come un’otite mal guarita; nelle orecchie, smerigliati,
i suoni della casa erano voci sirena in cui piano piano navigare. Sparivano gli oggetti della scuola come per autocombustione e restava il TEMPO.

E tempo significava abile ripartizione di pacchetti di giorni: un po’ di qua, un po’ di là,in un roteare di prestiti a parenti che si raggiungevano col cuore sospeso e la vergogna degli approcci.

Ma c’era un tempo che si spendeva nella attesa delle partenze. Quello, sì, mi piaceva: a scadenza, ma sfilacciato, leggero di programmi, un tempo con le vestine corte.

Scatola poco segreta di questo tempo era il viale, con bambini ad ogni casa, a spiare l’uscita del vicino, nelle ore del caldo, alibi per insistere “Vado fuori anch’io”. A giocare. E la pelle delle gambe faceva zviiiiig scollandosi dalla Frau, dove ogni giorno leggevo di Ercoli, Idre e Ninfe assortite, e scappavo fuori.
Il sonno era lasciato al resto della casa, che alle due si sgonfiava. Niente lavori, niente rumori, solo l’odore della conserva, a memoria di un ragù che aveva lasciato soddisfatta la tavola.

Le fughe si consumano sempre nel silenzio e si portano dietro il profumo di un luogo.
All’uscita il caldo ti prendeva chiaro, come una persona amica, con l’invadenza di un abbraccio che gratta un po’ la pelle.

“Dai, che andiamo alla stazione-porto”.
La repubblica delle bambine – per un sotterraneo sincronizzato tam tam – era già lì, con la sua gerarchia di capi e la sua mappa di luoghi.
I maschi del viale, sogguardati e respinti di giorno, venivano buoni solo verso sera, quando, tutto rilavato, il mondo bambino tornava giù in strada, per altri giochi più quieti.
E poi, chi li voleva i maschi? C’era quello lungo che diceva a tutte “mutanda del mio cuore” e io scappavo in casa rabbiosa dalla zia sarta: “le voglie lunghe, le sottane, le voglio lunghe….”

Alla stazione-porto i maschi non ci venivano. Dentro il magazzino, su scale di cassette per cipolle, in un leggero svolettare di bucce residue d’oro rosso, viveva, ben organizzato, il condominio delle bambine. Orma di casa, fetta di casa, in cui recitare il teatro dei ruoli. Su e giù , fra appartamenti ampi e stretti, panoramici ed oscuri, secondo regole di potere e di agilità: le grandi comandavano e le piccole ubbidivano…. le grandi davano la trama del gioco.

Quel giorno la bionda, forte dei suoi undici anni, aveva l’agitazione inquieta di chi le ha appena prese e si muoveva sui suoi sandali a strisce marrone- modello S. Francesco, come se le gambe lunghe fossero molle a scatto.
Io, nonostante i sandali, la rispettavo molto, e un po’ la temevo, per certe storie che mi raccontava, di vecchie col pelo matto in faccia che uscivano di sera a portar via i bambini,con la scusa di guardare i gerani delle case.

Quel giorno la bionda era malefica.
“La prova, – cominciò ad urlare, davanti alla stazione porto, col suo bel sagrato lastricato da cipolle marce- ci vuole la prova per entrare qui dentro. Le piccole devono prendere una lucertola e staccarle la coda”.
Le altre grandi ridevano e si davano delle arie. Le piccole non fiatarono, per darsi un contegno, anzi corsero via, verso il muretto miniera di lucertole.
Io stavo lì, a darmi della stupida per essere uscita di casa: avrei potuto finire la storia di Io, trasformata in mucca, e invece dovevo prendere le lucertole, che, fra l’altro, mi erano anche simpatiche. Mica erano come i rospi, loro, che, se facevano la pipì negli occhi – diceva mia nonna –facevano diventar cieca la gente. Ma come facevano poi a centrare proprio gli occhi della gente?
Non mi muovevo. Davanti agli occhi vedevo la pancia giallo- molliccia delle lucertole e la coda a tergicristallo e le zampe. Sicuramente avevano gli artigli e graffiavano e forse la pipì la facevano anche loro.
“Dai, muoviti fifona che qui dentro non ci vieni più…”
Le grandi mi parevano odiose, là con le gambe a penzoloni dalla finestra – ingresso per il paradiso.
“Stateci voi, lì dentro, che fa schifo e puzza. Non ci vengo, io. Tanto domani vado via. OCCHI DI MELANZANAAA!!”
E scappai, lasciando nella scia l’offesa più brutta.

Visto che li avevo, li odiavo gli occhi scuri, e, segretamente, continuavo a guardare in alto, appena potevo. Se a fissare il sole ci si abbronza, a fissare l’azzurro qualcosa dovrà pur succedere.

Punti & passi

13 sabato Dic 2003

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Non so cucire, niente, neanche un orlo, ma mi piacciono le persone che lo sanno fare. Davanti a un vecchio baule di corredo penso alle mani delle donne, al tempo che è passato fra quelle mani, come un filo.

Nella mia famiglia le donne hanno sempre lavorato con l’ago.
Tre donne in casa, tutte brave: miaziasarta, mianonnaricamatrice di fino, che pure le sorelle Materassi si sarebbe mangiata, miamamma, aiutante di entrambe, ma giovane e ultima nelle decisioni.
E poi tante vicine, lavoranti a turnazione, a seconda del bisogno. Lì, nella cucina laboratorio, tutte a imparare e a fare, fra le chiacchiere e la macchina da cucire col motorino e l’odore del ferro da stiro, che incontra il panno umido e lo cuoce di un profumo biscottato.

A me dicevano: leggi.
A voce alta, se avevo voglia, così mianonna stupiva per gli accenti.
Grande lettrice, non aveva mai sentito dire a voce viva alcune parole, perché mica servivano, lì da noi, eppure le giravano in testa e le tirava fuori come conigli, nei racconti: così per tutta la vita, dando aria alle sue storie lette, continuò a parlare di oceàni e di maggiòrdomi, senza mai, per nessuna ragione, spostare un accento.

Io leggevo, ma poi mi stancavo e finivo per ascoltare le chiacchiere e vivere i riti dell’ago, ammessa solo, per grazia speciale, a tagliare l’imbastitura, che lascia le marche sui lembi di tessuto, pelucchi di cotone, erba bianca.

Il martedì era giorno grande.
Dall’edicola arrivava fresco fresco, nella sua copertina cartonata, ma fragile, morbido- rosata, Mani di Fata.

A me piaceva per il nome, che era un programma fiabesco, una promessa di racconti.
Invece mica uscivano le fiabe dal giornale che miamamma, la giovane, correva a comprare: uscivano decalcomanie strane, ghirigori pulcini nastri lettere dell’alfabeto sagome di fiori irriconoscibili, tracce di ricami appena in rilevo, bluviola di inchiostro copiativo, sensibile al calore.
Si usavano a rovescio, si seminavano sulla tela, si ripassavano col ferro da stiro e restavano lì, impresse, in attesa di prendere colore dai fili….e poi da copiare, barattare, correggere…
Era un momento di attesa, quello della timbratura: si aspettava il sollevamento della carta cotta come l’attimo della rivelazione.

Allora le donne, finalmente solidali, commentavano i disegni, in un linguaggio babele fatto di punto quadro, mezzopunto, punto croce, un linguaggio a volte rubato alla natura che fioriva all’ombra di erba e gigliuccio, o ai libri di avventura, tanto i nomi esotici portavano lontano: punto tunisi… punto rodi.

Mianonna, se non c’era miamamma ed eravamo proprio sole, fingeva, qualche volta, di volermi insegnare qualcosa su certi quadratini di stoffa…ma soprattutto tentava di addomesticarmi alla vita.
“Mai star nell’altra stanza, quando mangiano gli uomini, mai. Solo i biolchi di campagna tengono le donne in cucina, però mai metterti a tavola prima dell’uomo, aspettalo, capito? ”
“Mai mettere il cappello dell’ uomo sul tuo letto, che porta male…Fai mica figli, dopo.”
“Se l’uomo brontola, lascialo dire, sai…dopo tanto va fuori e si dimentica.”
“E le scarpe, ah le scarpe se le pulisca lui. Mai pulire le scarpe dell’ uomo: in questa casa gli uomini non han mai chiesto alle donne di lucidar le scarpe”.

Forse i miei occhi si facevano grandi mentre l’ascoltavo e allora si fermava, la voce più bassa.
“Pensa se tutti i punti che ho fatto con l’ago fossero dei passi… Sarei andata lontano, veh…”
E io mi figuravo una strada lastricata di punti, fra colline di stoffe e di dozzine, una strada percorsa dall’ago, … tanti piccoli passi uno dietro l’altro, passi di formica come le lettere sui libri….

“Te, cammina, sta’ mica in cucina a puntare, a puntare si muovono solo le mani. Te devi muovere la testa e i piedi… e adesso dimmi la poesia di Ulisse…”
“Itaca, cuor del mio cuore, anima della mia anima…?”
“Sì, quella, quella col mare, che si dice anche oceàno…”

La mia casa

11 giovedì Dic 2003

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La mia casa vive,
Là,
Dove il monte mette la frontiera al cielo.
Le nuvole bevono acqua ai suoi pozzi,
E grattano dopo alle tegole le schiene stanche.
Là,
Il vento fischia come un bambino,
E alle gelate si scalda come gattina bagnata,
Là,
D’estate,
Le stelle si nascondon tra le travi,
E la luna arrabbiata ogni sera rompe i vetri,
e fa vetro i muri.
D’inverno,
Là
L’unica luce fra la terra e il cielo,
L’unico messaggio,
E’ la luce di casa mia mescolata con la luce
dell’anima mia.

La mia casa ha paura della città,
Le strade,
I marciapiedi.
Essa,
Sotto i piedi,
Ha due prati dove pasce la fantasia .

(Dhimiter Pojanaku )

Di argini & formaggi

07 domenica Dic 2003

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Parallele alle avventure di pesca di mio padre si davano, col tempo buono, le scorribande mie e di mio nonno, sull’argine, pigre e cadenzate dal fischiettare fra i denti.
Con mio nonno si era sempre dentro a una faccenda che sembrava una fiaba o giù di lì, e io non sapevo se le cose le diceva per davvero o per gioco. Non sapevo neanche se le parole che usava esistevano o se le tirava fuori dalla giacca, insieme ai foglietti tinti di segni verdi.
O forse proprio quell’ incertezza era la cosa fra noi.

L’argine di aprile aveva increspature leggere di gramigna e le prime roselline di radicchio selvatico. Aveva l’odore della maggiorana, che è di menta fiorita, forse, fra mele verdi. E un’aria così leggera, ma così leggera….

Si andava di pomeriggio e io reggevo la sua cartuccia di pelle, in cui, lucidi e ben puliti, stavano gli strumenti della visita. Miononno faceva il mediatore dì formaggi e ne era il medico, l’annusatore, l’ascoltatore, l’assaggiatore, anche.
Al caseificio della palazzina si arrivava prendendo la strada lunga, perché tutto doveva avere il sapore del mistero.

“Ci sarà aperto al caseificio?” – chiedevo, per avviare il gioco.
“Mah. Se la porta sarà chiusa, canteremo la filastrocca della porta che si apre, dell’acqua che bagna, del forno che cuoce, della scopa che spazza…” e tutte le cose del mondo affioravano, allora, a vestire l’argine di Po, e a muoverlo in infinite azioni…
“E se non si apre?”
“Se la porta non si apre, andremo a cercare la topina delle sette chiavi…”
“Ma sta nel fosso e le sette chiavi son attaccate alla coda” – continuavo io – “E se non troviamo la topina??”
“Inventiamo la parola magica per aprire la porta”
“Per me è “spalanca la bocca “… E spalancalaboccaspalancalaboccaspalancalabocca diventava, ripetuto mille volte, una biscia di suoni senza capo né coda.

Si arrivava al caseificio a porte spalancate, senza cancello senza chiavistello, e si attraversava la sala dove la caldaia rossa cuoceva. Nell’altra stanza i formaggi giovani venivano messi nello stampo e rifilati.
Si apriva la camera chiusa, col catenaccio rugginoso che sfregava.
Il buio. Per un momento solo il buio, perché lì i formaggi covavano, nella loro scorza nera, un po’ unta e un po’ cerosa. Poi la stanza, con la luce della porta, guadagnava in altezza e in profondità: sulle assile forme di grana si arrampicavano fino al soffitto, tutte uguali, in attesa del responso.

Se prima mio nonno mi sembrava un bel vecchio, con il cappello inclinato, adesso era un giocoliere ballerino, che faceva prillare una forma sulle mani, per saggiare la salute dell’intera partita, e la faceva suonare picchiettandola con le nocche e la trivellava piano, per annusare l’odore della polpa e infine la tassellava, estraendo dalla pancia della forma una carota bianca, un cilindro pallido di formaggio, da provare.
Il primo assaggio era per me, seduta sul primo ripiano, come su un trespolo. “Se assaggi questo, diventi la principessa del formaggio, ninina”.
Mi piaceva il formaggio magico, che non si scioglieva in bocca di colpo, ma si sgranava in puntini duri.

“È magico come il fungo cinese della zia?” – chiedevo, quando, sulla bicicletta si tornava indietro, e il nonno era un po’ più lento ad andare, un po’ più stanco.
“Di più. Questo qui fa apparire le biciclette. Ne mangi un pezzettino, pensi la parola giusta e alla fermata della corriera, la corriera si ferma e viene fuori la bicicletta”.
“Ma io non so qual è la parola giusta “.
“Eh, quella non la posso dire, perché altrimenti l’incantesimo non si fa…”

Allora, alle cinque e mezza, giusto quando cominciava la televisione, scappavo un momento in strada, con le briciole di formaggio in tasca.
Era a cinque passi la fermata della corriera: si poteva rischiare una sgridata, per essere corsa fuori. Pensavo e ripensavo a tutti i nomi che mi passavano per testa, ma mi pareva che ne occorressero di più, di parole.

Un pomeriggio, però, il nonno scese davvero dalla corriera con la bicicletta sotto il braccio. Rossa. Molto rossa. E io non sapevo neanche qual era stata la parola giusta del miracolo, perché, aspettandola corriera, ne avevo pensate un bel po’.
Chi poteva mai ricordarsele tutte…

Pescare

04 giovedì Dic 2003

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Se mio padre decideva di andare a pescare, la casa viveva giorni di apprensione.
Le canne non erano mai come erano state riposte e tutti si era sospettati di sotterranei boicottaggi, nodi a tradimento sull’esile filo di nylon, mulinelli inceppati, esche rivelatrici di capelli.
Miei, i capelli.
Era vera solo la faccenda delle esche: quelle piumette, quei quasi campanellini luccicosi erano giochi, trucchi arabi di orecchini – amo e di mosche acchiappacapelli, con cucchiaini a pendente.
Il paniere da pesca, superato lo scoglio dell’odore, era una riserva di idee, nei mesi freddi, quando si doveva pure fare qualcosa.

La vendetta di mio padre non tardava a venire. Il lungo filo di nylon veniva interamente srotolato e riavvolto con cura a ripetuti giri attorno ai muri della casa, che diventava una grossa rocca da fuso, legata dall’invisibile.
E noi, i prigionieri, eravamo impediti ad uscire per lunghissimi minuti in cui a tutti scappava la voglia necessità impellenza di correre fuori.
Ma il pescatore punitivo srotolava imperterrito la sua matassa senza labirinto e ci dava la voce dalla fìnestra.
Il “nessunesca” sembrava un passo di opera lirica, per via dell’autorità che mio padre metteva in ogni cosa, piccola o grande che faceva e diceva.

“Dov’è che vai?” – chiedeva miamamma, che sperava in insuccessi totali per lo schifo che aveva del pulire il pesce, con quelle sue bolle d’aria o vesciche. I bambini le aspettavano per farle scoppiare con lo zoccolo, ma poi si lasciavano le schifezze delle interiora alle spalle; era lei a pulire, mica miazia, perché miazia ad ogni cambio di stagione (o novità) aveva l’acidità di stomaco, che neanche col fungo cinese andava via e la vista dei baffioni dei pescegatti non migliorava niente il suo male.
Il fungo cinese, che gorgogliava come una frittella dì spugna nella boccalina di vetro, in un’acquetta acida e marrone, lo bevevamo dì nascosto anche io e la Diana, lei perché voleva ben vedere cosa beveva sua mamma e io perché volevo ben vedere cosa beveva la Diana.
Il fungo cinese sapeva di rancido amaro e galleggiava incerto con quel suo orlo-labbrone a smorfia.

Comunque a miamamma toccavano i pesci da tagliare sulla pancia e da strizzare bene coll’ unica compagnia del gatto, che, con misurata circospezione, dava dei colpetti a qualche pesce periferico, per tirarlo dalla sua parte.

Le risposte di mio padre, circa i luoghi di pesca, erano bellissime e disegnavano il lontano.
Lo attendevano mica il Po o la Canalona, grassa di rane sui bordi, ma il Canal Bianco o il Tartaro. E le tappe le faceva a Santa Teresa del Gesù.
Mica poco.
Io non sapevo dove fossero questi posti, ma mi sembravano tutti di chiesa, molto di chiesa, belli e terribili, tanto che mi pareva più giusto che prima lui pescasse nel Tartaro, che aveva un nome cattivo, e poi andasse a chiedere scusa nel Canale Bianco, dove di certo i pesci erano chiari di latte e forse non si dovevano neanche pulire, e non avevano né bolle sonore né sangue …

Da piccoli c’è bisogno che i nomi dicano la verità, altrimenti cosa ci stanno a fare?
Si sanno solo i nomi. Si conserva, si trattiene solo la buccia.
Si ripetono di fila i nomi delle capitali del mondo, ma chi sa cos’è la capitale, ma chi sa cos’è il mondo…
Se invece i nomi fossero frecce…
Se portassero almeno una direzione…
Se a dire la parola si capisse quel che sta dietro… uno, allora, non avrebbe bisogno di inventarseli i richiami, né sarebbe costretto a inventarsi le parole.
Si starebbe al sicuro, come sotto un ombrello.
A Santa Teresa del Gesù ci doveva come minimo abitare la Madonna, o un angelo o due.

“Si possono cambiare i nomi?”- chiedevo a mia mamma – “Chi è che li fa ? E se io invece di dire pesca da mangiare, dico lasugosa, ma so che è la pesca da mangiare, che cosa succede?”
Mia mamma non diceva niente, o meglio mi lasciava dire, e guardava il suo uomo alle prese con un motorino che non partiva, scrollato da ogni lato, rabbiosamente. Tanto io pensavo già ai nuovi nomi con cui avrei ribattezzato il mondo. Nomi di armonia, che stessero bene alle cose.

Fratelli

01 lunedì Dic 2003

Posted by colfavoredellenebbie in margini

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Se le storie avessero un doppio si specchierebbero a rovescio, una in faccia all’altra, identiche e contrarie, come quella dei due fratelli.

Stavano nella casa dei pioppi, i pioppi della neve in primavera, quella che le vecchie si filerebbero, se i piumini fossero cotone, per copertine leggere.

I pioppi a mano aperta stavano fra la campagna e la corte, fra la corte e il caseificio, quasi a mettere ordine pure nei lavori: al Barba il latte da cagliare in grana, al Vecchio la terra da guardare.

Solo che, a far formaggio, il latte si riceve all’alba, c’è da faticare anche se un uomo aiuta, ma, dopo non si sta a guardare, ci si decide a far qualcosa. Così ilBarba, una volta in piedi, di tempo ne aveva e faceva partorire le bestie, e guardava le api, sistemava la legna, zappava l’orto e aiutava il Vecchio, perché il Vecchio, la giacca, mica la levava.
Se è per questo, neanche domandava, ma aveva un suo modo di non chiedere così bello che arrivava a segno.

“Ah, tempo di pioggia,- diceva – se i covoni fossero fatti, tutta fortuna…”
“Se c’è da farli, si faranno”- rispondeva il Barba e prendevano la strada di campagna, il primo a testa in aria, il secondo a cercare per terra la cicoria.

“Ma quante, quante ce n’è quest’ anno, – diceva il Vecchio a guardar le spighe già tagliate – guarda guarda…se se ne accorge la mia schiena…”
“Se sono tante, si raccoglieranno,- rispondeva il Barba, che si toglieva il gilè – Te, metti la schiena all’ombra.”

Sotto la pianta di susine, il mal di schiena stava quieto. Il Vecchio guardava in su.

“Certo le nuvole son più svelte delle braccia…Bisognerebbe fare presto.”- sospirava.
“Se c’è da far presto, si muoveran di più ”- il Barba non s’asciugava neanche la fronte e drizzava le spighe e le legava, in gara con il cielo.

Alla prima goccia il Vecchio dava l’annuncio, perché stava attento, e , coi covoni che riposavano al sicuro, stretti da un giro di salice, tornavano in corte.

“Certo è fatica anche guardar sempre in alto” diceva il Barba, per dare soddisfazione al Vecchio.

E si ringraziavano, sulla porta del caseificio.

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