Se mio padre decideva di andare a pescare, la casa viveva giorni di apprensione.
Le canne non erano mai come erano state riposte e tutti si era sospettati di sotterranei boicottaggi, nodi a tradimento sull’esile filo di nylon, mulinelli inceppati, esche rivelatrici di capelli.
Miei, i capelli.
Era vera solo la faccenda delle esche: quelle piumette, quei quasi campanellini luccicosi erano giochi, trucchi arabi di orecchini – amo e di mosche acchiappacapelli, con cucchiaini a pendente.
Il paniere da pesca, superato lo scoglio dell’odore, era una riserva di idee, nei mesi freddi, quando si doveva pure fare qualcosa.

La vendetta di mio padre non tardava a venire. Il lungo filo di nylon veniva interamente srotolato e riavvolto con cura a ripetuti giri attorno ai muri della casa, che diventava una grossa rocca da fuso, legata dall’invisibile.
E noi, i prigionieri, eravamo impediti ad uscire per lunghissimi minuti in cui a tutti scappava la voglia necessità impellenza di correre fuori.
Ma il pescatore punitivo srotolava imperterrito la sua matassa senza labirinto e ci dava la voce dalla fìnestra.
Il “nessunesca” sembrava un passo di opera lirica, per via dell’autorità che mio padre metteva in ogni cosa, piccola o grande che faceva e diceva.

“Dov’è che vai?” – chiedeva miamamma, che sperava in insuccessi totali per lo schifo che aveva del pulire il pesce, con quelle sue bolle d’aria o vesciche. I bambini le aspettavano per farle scoppiare con lo zoccolo, ma poi si lasciavano le schifezze delle interiora alle spalle; era lei a pulire, mica miazia, perché miazia ad ogni cambio di stagione (o novità) aveva l’acidità di stomaco, che neanche col fungo cinese andava via e la vista dei baffioni dei pescegatti non migliorava niente il suo male.
Il fungo cinese, che gorgogliava come una frittella dì spugna nella boccalina di vetro, in un’acquetta acida e marrone, lo bevevamo dì nascosto anche io e la Diana, lei perché voleva ben vedere cosa beveva sua mamma e io perché volevo ben vedere cosa beveva la Diana.
Il fungo cinese sapeva di rancido amaro e galleggiava incerto con quel suo orlo-labbrone a smorfia.

Comunque a miamamma toccavano i pesci da tagliare sulla pancia e da strizzare bene coll’ unica compagnia del gatto, che, con misurata circospezione, dava dei colpetti a qualche pesce periferico, per tirarlo dalla sua parte.

Le risposte di mio padre, circa i luoghi di pesca, erano bellissime e disegnavano il lontano.
Lo attendevano mica il Po o la Canalona, grassa di rane sui bordi, ma il Canal Bianco o il Tartaro. E le tappe le faceva a Santa Teresa del Gesù.
Mica poco.
Io non sapevo dove fossero questi posti, ma mi sembravano tutti di chiesa, molto di chiesa, belli e terribili, tanto che mi pareva più giusto che prima lui pescasse nel Tartaro, che aveva un nome cattivo, e poi andasse a chiedere scusa nel Canale Bianco, dove di certo i pesci erano chiari di latte e forse non si dovevano neanche pulire, e non avevano né bolle sonore né sangue …

Da piccoli c’è bisogno che i nomi dicano la verità, altrimenti cosa ci stanno a fare?
Si sanno solo i nomi. Si conserva, si trattiene solo la buccia.
Si ripetono di fila i nomi delle capitali del mondo, ma chi sa cos’è la capitale, ma chi sa cos’è il mondo…
Se invece i nomi fossero frecce…
Se portassero almeno una direzione…
Se a dire la parola si capisse quel che sta dietro… uno, allora, non avrebbe bisogno di inventarseli i richiami, né sarebbe costretto a inventarsi le parole.
Si starebbe al sicuro, come sotto un ombrello.
A Santa Teresa del Gesù ci doveva come minimo abitare la Madonna, o un angelo o due.

“Si possono cambiare i nomi?”- chiedevo a mia mamma – “Chi è che li fa ? E se io invece di dire pesca da mangiare, dico lasugosa, ma so che è la pesca da mangiare, che cosa succede?”
Mia mamma non diceva niente, o meglio mi lasciava dire, e guardava il suo uomo alle prese con un motorino che non partiva, scrollato da ogni lato, rabbiosamente. Tanto io pensavo già ai nuovi nomi con cui avrei ribattezzato il mondo. Nomi di armonia, che stessero bene alle cose.