Intermezzo (di sogno e d’attesa)

Il Leo era il più sospirato del viale, per via di ciglia che si dicevano lunghissime e di occhi scaltri e frugatori.

Piaceva anche a quelle grandi, che avevano il permesso di andare a ballare alla Colomba.
Quelle anni 18 o giù di lì, vestito stretto in vita e sottogonna che allargava la sottana ad ampiezze che noi sognavamo di raggiungere e superare …

A loro il Leo riservava brevi accompagnamenti in bicicletta, sorpassi veloci e gentili frenate improvvise, corteggiamenti da manubrio, canticchiando Pat Boome.

Noi guardavamo lui e trovavamo odiosi difetti alle accompagnate, colpevoli di possedere nasi con cui neanche si doveva uscire di casa e di prendersi confidenze di risate a bocca aperta.

Alla Diana, invece, era difficile trovare dei difetti.
Il tribunale delle invidie bambine taceva di fronte all’evidenza.
“Ha le gambe belle”- faceva la Lella.
“Secondo me il neo è finto, sul polpaccio” – si attentava la Cri.
“No no – dicevo io – è proprio vero. Ve lo faccio anche toccare quando dorme”.

Io potevo, perché la Diana era mia cugina …

Una cugina che rideva di gola a e che ballava il Calipso, e aveva certi vestiti che andavamo, in cordata, a toccare nell’armadio, perché erano gonfi e vaporosi, di stoffe marezzate, lucide e fredde a toccarle, come la carta dei cioccolatini.

Nessuno sapeva che miazia si alzava prestissimo il mercoledì e, al mercato, sul banchetto della Norfa, regno indiscusso dell’american-strass, trovava per poche lire tesori di stoffe strane e luccicanti e veli trasparenti e vecchi vestiti cangianti e strisce di pizzi mangiati.
Questi diventavano, dopo nottate di macchina da cucire, tagli e prove, i vestiti della Diana.
“Stai all’ombra, che non si vedano le cuciture vecchie”- diceva miazia e con questo invito gli abiti venivano licenziati e cominciavano il loro destino nuovo.
La Diana li avrebbe portati, poi sarebbero stati risistemati e, in terza o quarta battuta, sarebbero arrivati anche a me, con la stessa inalterata regola dell’ombra.

Intanto toccavamo e a ammiravamo e ispezionavamo, ben impacchettati sul fondo dell’armadio, certi sandalini col tacco dorato, che significavano feste e ragazzi che ti fischiavano dietro e magari ti accompagnavano a casa sulla canna della bicicletta, con la faccia vicina ai tuoi capelli.
Secoli da far passare.

Per questo mangiavamo la Diana con gli occhi, quando usciva per andare a ballare alla Colomba, gazzosa e tavolini fra la madresilvia, complessino di ragazzi con ciuffo e gilé di lamé…
Mangiavamo con gli occhi la Diana, che rideva con la voce e con tutto, e aveva i capelli corti e agitati, e la vita così stretta da sembrare Lilì del valzer dell’organino.
Troppo bella.
E mai da sola, perché i morosi, la Diana, li cambiava come le pareva, mica come le diceva sua mamma.

I morosi della Diana in casa non piacevano mai.

A noi bambine del viale piacevano tutti.
E ne tenevamo giudiziosi conti, confrontando prestanza e difetti. E innamorandoci pure noi, in parallelo.

Chi pensa mai all’amore bambino…

Quando un maglione steso all’aria ad asciugare sembra il messaggio di una presenza lasciato solo per te, briciola di pane nel bosco.
Quando, per simpatia, si amano tutte le persone col ciuffo, se il tuo moroso pensato ha il ciuffo, e tutti quelli biondi, e tutti quelli con la bicicletta blu, e tutti quelli che si chiamano Marco …

È un amore per classi, per generi, per insiemi, pagato a fughe davanti ai segni, alla voce che nomina, all’ombra che disegna.
Si scappa, seminando scie di vergogna color rosso-pito e di gioco, in chi sa…
E tutti, inevitabilmente tutti, sanno: dai fratelli che fanno i furbi, alle amiche che si danno di gomito, e, ai rari passaggi (attesi come apparizioni), si riempiono gli occhi al tuo posto.
Perché, chi è innamorato bambino, si innamora attraverso gli occhi degli altri.

Chi è innamorato bambino non ha la persona, ne ha il nome, da ripetere in una filastrocca che smemora, da scrivere e cancellare, ovunque, sui vetri di vapore che si condensa, il nome da rubare ai giornali, da misurare in lettere e numeri.
E poi da dimenticare, domani, quando il nome assume concretezza: senti il nome parlare, per caso, e avverti nella sua voce una nota che stona; vedi d’un tratto il nome passare, scendere goffo dalla bici e non è più il tuo amore, di prima.

È attento alle sfumature l’amore bambino e si disamora di un nulla, per sempre.