• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: marzo 2005

I paesi che noi amiamo

29 martedì Mar 2005

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 84 commenti

I paesi che noi amiamo non stanno dritti come tulipani ordinati, a gradoni di altezza e cromatura controllata. Se la ridono di ogni Regionale Piano Del Colore e si tengono le misure che hanno.
Anche le tinte.

Sembrano scivolare dal dorso di una collina (piccole dita prensili al lavoro), oppure profondare in una nicchia di pianura, quasi a cercare contatti con un basso che si indovina ma non si raggiunge.
I paesi che noi amiamo non nascondono le crepe né le mostrano come stimmate di santità.
Le tengono e basta, fermi nel sapere che ogni ritocco porterà solo intonaco di geometrile perizia ma non amore in più e neppure sicurezza.

Esibiscono quieti la rugosità del tempo su pareti esposte a Nord.
(Scaglie briciole di ruggine ai cancelli non insofferenti al vilucchio. E polvere che la pioggia ha fissato sui portoni di legno, nelle strade guardate dal marmo silenzioso. E chiocciole di schiuma dura, arrotolate e porose)

I paesi che noi amiamo guardano il fiume, ma, appena possono, gli voltano la schiena per prendersi l’ultimo sole della sera. Bello porgere l’innocenza delle spalle al pericolo.
Sfidano le zanzare con tinte improbabili, prese a prestito dal manto di madonne campagnole, infilzate sui bivi sterrati o dallo sfarsi della neve che non imbianca più.
Emergono brevi, come inseguiti dalla pianura che leviga e schiaccia  ogni fuga verso l’alto, paletta per mosche, col fiato sollevato in argini senza ambizioni.

Oppure…

Oppure, i paesi che noi amiamo guardano la montagna e ne custodiscono il cuore di confetto.
Non hanno sorrisi di finestre attendate ma lucidano di passi le pietre dei gradini e tentano la leggerezza con slarghi improvvisi e luminosi.
I paesi che noi amiamo cadenzano la passione con voci antiche e struscianti passaggi che grattano la strada e l’anima di chi riceve.
Luce bianca, anche nel dolore.
Hanno statue mobili e sguardi inquieti, hanno lutti che nascondono colombe, manti che diventano prati, vergini piagate che fioriscono di primavera e chiedono l’aria della corsa, il passo della ricongiunzione, lasciando il pegno di una rosa.

I paesi che noi amiamo hanno sorrisi di ragazze sull’arco, l’odore di zucchero cotto nell’aria: sanno di amicizia buona, come l’olio (denso d’oro) sul pane.

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Caleidoscopi

20 domenica Mar 2005

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 70 commenti

Giorno di colori e densità diverse.

Stamattina mi sveglio col ghiaccio di certi stringimenti d’anima, che nascono da paure naviganti e spumose: quelle che durante la notte non se ne vanno, battono e ribattono.
Ti aspettano, quasi ti salutano, la mattina.
Piccoli condor da comodino.

Così, per il ghiaccio interiore, è un attimo diventare mattone: metamorfosi domestica e senza pretese.
Il mattone, opaco e corposo, sa dove andare: si colloca fra te e il mondo.

A fare il salto del mattone, pensieri e speranze si stancano subito e allora restano lì, in esilio: ciondolano.
Potendo, si prenderebbero un diversivo, invece macché.
Sul mattone c’è poca vita: stanno lì, aspettando una svolta del destino.

Il bianco grigiolino del ghiaccio interiore si sfilaccia in una tinta ibrida, screziata in tortora, che non è il colore della vita, è il colore della vivenza, quella che perde tutte le preposizioni. Modello basic.

Poi, vai.
Intanto il sole si commuove e saluta.
Vagamente cominci a pensare che è più economico lasciare da parte gli universi irritati inquinati intristiti: meglio farsi prendere dalle cose da fare.
Sposti il mattone e affronti l’arena.
Lì prevale il rosso, che accompagna equamente emozioni e ortiche trattenute, agitazioni da timidezze cementanti e sanissimi istinti di soppressione. Il rosso ha i toni aranciati del fuoco ma sa incupirsi e diventare violaceo.

Poi, torni.
E quando torni dal mondo, niente è mai come prima.
Le paure sono in pausa pranzo, i sacri furori (che convivono con gli alti doveri) escono un attimo.
Hai bisogno di trasparenze decantate e di vuoti appena velati di azzurro, come sanno essere certi vetri che conservano la memoria dell’acqua. Cerchi aquiloni di musica e di parole: ti acquieti sulle tinte della stanchezza buona, che non è spossatezza ma misura del già fatto.

È questo approdo l’indizio. Se cambiano i colori nel gioco delle biglie della giornata, nel trans-ire fra  densità e sfumature, un motivo ci sarà.

Io credo di avere capito: ci hanno inserito nel Segreto Caleidoscopio Galattico.
Siamo i vetrini colorati, i chicchi di melagrana, che ruotano sul piano opaco, a formare meravigliose figure sempre uguali, sempre diverse, combinazioni multiple e cangianti : architetture senza persistenza.
Siamo tracce di colore in movimento.
Ci muovono, ci cambiano, ci sbattono, ci spingono, ci trattengono, ci sfumano, in un vorticare senza fine, per la gioia di qualcuno. Simmetrie di specchi e di destini incrociati.

Ad ogni gentile rotazione del Caleidoscopio, noi urtiamo dolorosamente contro le pareti del mondo.
Hanno previsto ogni cosa.
“Soffre, signora? Rigidità alla spalla? … Artrosi…”

Pio

09 mercoledì Mar 2005

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 80 commenti

C’è un posto dove fanno il pane col forno a legna, qui vicino.
Grigiotempo fuori, verdezanzara, dentro.

Due vecchi con l’accento diverso, in mezzo a tanti “comaaandi” e a diversi “ghe seto?” e “chi elo?”.
Lei, che non ha perso una maniera femmina, sotto le rughe. Lui, che è un bastone e un berretto.
E il pane di copia grossa e polpa soda, che non si affloscia e tiene per giorni.

Ci si va giurando che mai si guarderà la polvere, mai gli zampironi fianco a fianco con lo zucchero a velo e la statua della pastora con la gamba ripiegata (pieghe dorate sulla sottana).
Perchè il pane non è mai sporco.

Per niente al mondo si fermeranno gli occhi sulla latta nera della ciambella, così generosa da lasciare un segno sul sacchetto di carta. E, se il pane non è mai sporco, perché mai dovrebbe esserlo una brazzadella che si umilia nel vino bianco.

Nel posto del pane cotto a legna ci si va per il nome.
Sa di chiesa e di gallina: è un nome che pigola, corto come la virgola delle case che sorreggono il forno. Tre lettere di nome e tre case: perfetta coincidenza mai richiesta, su una curva a gomito.

Nel posto del pane cotto a legna ci si va per l’odore.
Sa di pietra calda e rossa, sa di camicetta che si apre senza malizia.
Sa di pelle chiara.

Pane prosperoso, di cui cerchi le briciole sulla tovaglia, come ti dovessero portare a casa.

Voci dal labirinto

02 mercoledì Mar 2005

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 81 commenti

(semi-serie divagazioni domestiche)

Perdo ogni cosa.

Ombrelli, soprattutto.
Li riconosco qualche volta, intenti a coprire capi altrui.
Ci salutiamo, io e gli ombrelli, perché sappiamo che è stato bello, ma breve.
D’inverno, in genere, perdo guanti. Possibilmente un guanto di varie coppie non combinabili fra loro….e  questo è strazio allo stato liquido, che entra in circolo e ti riempie di nostalgia: belli i tempi dei due guanti appaiati, senza gelosia fra mani. Belli e caldi.

Se ombrelli e guanti sono perdite stagionali (proprio come i ventagli), i libri assicurano  alla perdita un ritmo costante e indifferente alle variazioni climatiche. Un libro amato, che vorrei prestare con piacere, è a colpo sicuro: lo perdo subito. Così ne compro due e mi difendo in anticipo.

So fare grandi cose anche con la guida telefonica e il telefonino ( insieme e separatamente, spesso in successione diacronica), con il portafogli, con le chiavi di casa (mie e altrui), con i fogli su cui annoto un appunto volante (tanto poi ci torno su), con i floppy e i cd.

Gli occhiali sono un capitolo a parte, doloroso come pochi altri: cercare gli occhiali spariti senza occhiali richiede una vocazione all’avventura….vedi un bagliore, parti sperando nella meta vicina e invece ti ritrovi con un paio di forbici (di dubbia resa, rispetto al bisogno).

Ma quello che maggiormente mi destabilizza è che soltanto un attimo prima di uscire mi accorgo che mi manca qualcosa.
Allora, al grido lamentoso “Non trovo più….”, comincia la mia ricerca a elica: chi mi vive vicino ricorda un impegno improvviso oppure rivela un immediato, morboso desiderio di portar giù le spazzature e mi lascia da sola a soffrire. Lungo le scale, mentre si allontana, mi dà però dei preziosi consigli…

Stamattina, mentre, già in ritardo, cercavo le verifiche di italiano, e intanto, in contemporanea, perdevo borsa e chiavi di casa,  ho capito tutto.
Mi sono ricordata le parole della vecchia signora che mi aiutava nelle faccende, una volta; ne avevo una paura così forte che pulivo tutto prima del suo arrivo, per non fare brutta figura.

“La casa nasconde, ma non ruba”- diceva….

Nasconde, appunto.
È la mia casa che nasconde.
Ogni cosa.
L’ho capito.
Lo fa per trattenermi. Per costringermi a stare lì, a fare e disfare e rifare….

Che si sia innamorata di me, in tutto questo tempo?

È un dubbio che viene, quando si ritrovano (dopo 24 ore di ricerche da soccorso alpino) le verifiche dietro il frigorifero.

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