La mattina non arriva mai uguale, in questi giorni di maggio all’improvviso.
Ha il suo modo di salutare.
E io il mio.

So spostare le lenzuola piano, quando mi sveglio (molto presto in questi giorni).
So scendere senza fare rumore, scegliere la tazza grande e sottile e aspettare insieme al caffè la mattina che viene.
Ha da essere sottile l’orlo della tazza. Un guscio. Poggiato al labbro, è il primo contatto tiepido della giornata: un differire il piacere del sorso con un altro piacere che rassicura.

Fuori c’è un fresco che chiama la pelle e un ridacchiare acido di tortore dal becco debole.

E’ in fondo solo un filo di bava a dire di lumache notturne, sui piastroni a sassi grigi del terrazzo: lumachine rampicanti che lasciano la fatica di tracce in salita, sulle foglie dei fior di vetro.
A seguirle, ne esce la mappa di un viaggio fatto di sbandate e improvvisi amori.
(La panca scura racconta di un incontro e di una separazione: due scie divergenti, una dritta e impettita, senza ripensamenti, l’altra ondivaga e incerta, che gorgoglia in tondo e sparisce dietro la peonia.)

Una cucchiaiata di terra smossa e raspata tradisce il passaggio di un merlo nervoso.
Non lascia niente al suo posto. Cerca e cerca e poi si lascia ingannare da una stagnola.
Fosse un umano, sarebbe l’Ulisse di Pavese…due scarponi infangati, nel mattino azzurro sulle piogge di un mese.

Una piuma di civetta, nel varco del glicine: altri transiti leggeri, dunque, altri prestiti solo pensati nel buio.

Piace la mattina, prima del mio andare, gonfia dei segreti della notte, che ancora contiene.
Piace la mattina, prima del mio andare.
Orlo sottile del giorno.