• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: luglio 2005

C’è molto sole

31 domenica Lug 2005

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 40 commenti

(pensieri afosi)

C’è molto sole. E sono circondata da case gialle.
La case gialle non aiutano a spegnere la luce: le strizzano l’occhio, collaborative.
Anzi, collaborazioniste.
Le case gialle d’estate sono sfacciatamente dalla parte del caldo e del sole.
I moschini (che hanno la convinzione di poter passare ovunque) sbattono contro i muri, confusi da tanto spreco. Restano lì, vagamente crocifissi e delusi.

Ora però s’è smosso un filo di vento.
Viene voglia di seguirlo, perché il poco porta al tanto, si dice qui.
Gli alberi se ne sono accorti, persino l’ippocastano che ha le foglie bruciate e non ci sperava più. Avevano bisogno d’aria, le piante, anche solo per parlare un po’ e vincere questa calma intontita.
Tutto era vapore umido e consumato, prima. (Il vapore umido e consumato sta all’aria come il latte condensato al latte. Lascia zuccherata la bocca e non si beve né si respira)

Il filo di vento regala un progetto.
Forse uscirò.
Forse.
Due tortore, dal muro di fronte, bene-dicono, non richieste. Fra passeri invadenti.
È domenica. L’ultima domenica di luglio.

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La donna con il nome strano

26 martedì Lug 2005

Posted by colfavoredellenebbie in margini, qui da noi

≈ 28 commenti

Qui da noi, una volta, c’erano magrezze asciugate, quelle che spuntano ossute dalle spalle, prepotenti di ossa: non tengono la carne e neppure le lane. La pelle,  senza pieni, solo asseconda fosse, lunghe, alla radice del collo, scavate dai sospiri.
Vecchie magrezze sposate con il nero, di grembiuli e di gonne sovrapposte, lo scialle incrociato sulla schiena, a cancellare il seno.
Le calze spesse, anche d’estate.

Così era la donna con il nome strano.
Nessuno le aveva  mai visto il petto: i gomiti piantati nel costato a difendere o a nascondere, chissà.
Nessuno l’aveva mai vista mangiare. Non una pesca nelle giornate calde, la pesca che canta nella gola, sciroppando liscia liscia. Non una castagna che brucia fra le mani e inganna il primo gelo.

Mosca scura, con la testa aguzza, le ali aperte a spingere il carretto.

Ci sono mestieri  che chiedono le dita e corrono agili dietro al chiacchierino, inventano nodi, han confidenza con le cose fine: vivono d’ago, filo e pensieri bianchi.
Ci sono mestieri che chiedono le braccia: ne cercano le vene, ne vogliono i cordoni, ne succhiano la carne che non c’è.

La donna con il nome strano lavorava di braccia come un uomo.
Spostava casse su e giù dalla corriera, fra casa e casa guidava transiti di mobili e stufe, di quadri grondanti cristi e croci, di sacchi di terra per le dalie…

Ad ogni giro con il carrettino perdeva un po’ di donna, piallata come un legno.

Ma a chiederle del figlio… A chiederle del figlio si fermava, la bocca solo un po’ rotonda come in un bacio imploso.
– Sta beeeene sta beeeene – diceva con tante ‘e’ fresche di paradiso –  Lu l’è ‘l me cor, al me cor…
E si lisciava il petto col palmo della mano.

Ci sentivi il latte e un miele antico.

Arcipelago delle Finzioni: L’isola degli usati volti

21 giovedì Lug 2005

Posted by colfavoredellenebbie in Arcipelago delle Finzioni

≈ 35 commenti

Quando, nel tremore della corrente, si apre un pianto di golabianca, seme di dolore conficcato nel cielo, il viaggiatore capisce.
Cerca nel grigio la  procellaria, certo della tempesta vicina.
Sa che niente potrà più servire: la tempesta arriverà con voce d’aquilone, alzerà la montagna d’acqua per farne muro di pesci, incanterà vertigini di schiuma  fra  confini violati.
Questo dice il pianto di golabianca, che serra nel becco giallo l’anima di antichi marinai.
E, nell’attimo di striscia chiara, ancora sciolto fra mare e cielo, il lamento guida all’isola degli usati volti.
Si arriva  a remi stanchi, come per sospiro: ninfea di legno attratta da una sponda.
La persona è là, ferma nel suo sempre.
Chi giunge sa del dono.
Se a guardarla riconoscerà il segno di un caro, usato volto, e lo percorrerà col dito, il mare lo tratterrà sul limite del gorgo, non lo sputerà lontano né lo vorrà al fondo.
E allora il navigante insegue, su quel viso, la ruga del padre (a incrudelire la fronte) o la piega che arriccia il bacio della moglie, nell’ultimo saluto, o la piuma di sonno scuro che fa lenti gli occhi del figlio, forse il filo di tagli che cuce il labbro della madre…
Cerca una speranza o una ragione, col cuore già nella tempesta, e non sa se il mare alle sue spalle sarà schiaffo o carezza verso casa.

Arcipelago delle Finzioni: L’isola degli aromi

18 lunedì Lug 2005

Posted by colfavoredellenebbie in Arcipelago delle Finzioni

≈ 36 commenti

In esilio al mio tavolo-zattera, i luoghi lontani, per ora, non posso che pensarli.
E allora riprendo un gioco di biglie che mi è caro, un inventario di isole quasi esistenti, visto che ciò che passa per la parola approda ad una storia parallela e sotterranea, ad una categoria intermedia fra il reale e l’immaginario: quella del “possibile”.

La prima, ad occhio nudo, è già nota, in quanto avvistata da qualche Battello: è l’Isola degli aromi.

C’è un’isola di cui si avverte l’odore, prima ancora del profilo morbido e mosso.
Il suo nome cambia, rimbalza fra le spezie dei mercati e le voci dei porti, cangiante come una madreperla. Ogni marinaio ne  tiene memoria nel cuore, come un pegno o un invito o un rifugio.
Ma l’odore…, l’odore non muta e guida nelle notti senza luna, e chiama nei giorni di luce, quando l’acqua si fa specchio di segmenti leggeri.
Chi giunge all’isola sa che è per poco, solo vi può acquistare un vaso di menta o di rosmarino.
Se il bisogno di casa è forte e fa tremare la voce, si chiede la menta alla vecchia che attende. E nell’aroma il viaggiatore riconosce il profumo del pane, dell’aria che entra in casa, il mattino, a snidare il caldo del chiuso con l’uncino di una bava leggera. C’è chi giura d’aver visto una cuna e una tavola bionda, fra le foglie di menta.
Se invece è la paura a chiamare alla sosta, si chiede il rosmarino alla vecchia che attende. Così si sciolgono, lievi, le ansie di vascelli fantasma e si stemperano i gridi che gracidano, lontano. Non giungeranno le streghe, troppo intente a contare gli aghi di rosmarino, … e le ombre torneranno ad essere sogni.

Fra nostalgie e tremori, i viaggiatori scelgono e riprendono il viaggio, ricchi di una foglia o di uno spino.

Parole, tipi di…

10 domenica Lug 2005

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 74 commenti

(con promessa di ricerca accurata)

Le parole vivono e muoiono.
Talvolta si fermano nell’attesa di una carezza, covano dolcezze in frigoriferi remoti o intristiscono dimenticate ai bordi di un cassetto.
Si guardano allo specchio se parlano da sole, ma anche scoppiano con fragore d’arduo dirupo che frana, limano le unghie per calcolati affondi o per certe improvvide felinerie di graffi.
Poche volte solo s’addormentano, paghe di quel che han detto, più spesso s’incupiscono in stagni di fraintendimento.
E per vederle femmine, ah per vederle femmine … le parole han bisogno di sguardi profilati, di duelli in punta di fioretto, allora disegnano la bocca di malizia e accendono gli occhi.

Piace, ogni tanto, far la conta di quelle che accompagnano la vita .
Le mie.
Piace stenderle sul filo.
Piace  toglierle dal libro di sabbia, scuoterle piano e secco, col polso che si fa becco di cicogna.
Piace rinfrescarle d’aria e d’amido (in fondo sono come doti, in pile di tovaglie e tele fine, regalo di una cura all’odore di lavanda e orgoglio, che si dà a dozzine).
Con le parole è  come con le cose: se non si ripassano, si finisce con l’usare sempre quelle.
I gesti hanno pronta la domanda e i rapporti eterni tacciono in (intrecciati) tesori sottintesi.
Meglio, allora, per una volta, dispiegarle, lisciarle  e ripiegarle: in  file nuove, ma senza l’etichetta; solo un’immagine a tenerle a bada.

Parole “ponte” – commentava Effe -, e sul ponte scorrono le idee: il ponte annoda  e stringe, e viola la separatezza e profana la distanza, preso d’amore per quell’altra sponda.
Belle le parole-ponte. Vivono fra isole . Prendono per mano, a ritrovare quelle del fiume, del mare e del lontano.
Ma stasera, che è sera di folgori e di buio, vorrei scovare e stendere sul filo parole d’orecchino.
D’oro e messicano.
Gabbiette luccicanti con cuore di lucciola viva, al posto del diamante.
Parole nella sera, non fresche, non fruscianti: parole a disperdere ansia, a salutare partenze o ritorni, ad augurare rotte, parole che accompagnano come gli sguardi buoni, sorgive e luminose .

Chè, non han nemici le parole, se non l’opacità.<

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