(sperimentato sabato pomeriggio)

Pomeriggi lenti, ma così lenti che fa malinconia persino la zolletta che cala nel caffè.
Ci sentiremo fra un attimo,  ma non ci vedremo più.
Con la zolletta.
Il danzatore di Rilke è qui, inquilino della stanza accanto: movimenti tronchi, spazio stretto leccato addosso e slanci implosi sulle nocche delle dita.

Saranno tante le linee della vita (o della mano) ancora non vissute?

Intanto piove grosso, mentre il cielo si porta avanti col lavoro: corre a destra con nuvole e garze grigiolilla.
Ha fatto tanta strada, sbandando pesante. Si butta di qua e di là: vacillamenti al centro con “stracci di nubi chiare”.
Non resta che seguirlo.
Uscire in coda al temporale, non appena lo strascico si fa di pioggia fine .
Gira in tondo.
Noi anche, sugli argini ad anello, verdi e lucidati.
L’achillea bianca e leggera, come un fiume a parte, sulla banca, delicato. Corolle sensitive in mano al vento.

E’ un vecchio gioco, quello d’inseguire il temporale, fra schizzi alti, il Po che cambia pelle e il vapore mezzano, che non è acqua e non è aria, indeciso fra scendere e salire.

La nostra vita fatta a strati.
Con l’argine a metà, non solo noi, fra altezze senza diritture e curve sciolte.

Si ride col tirotto preso al forno ( due gocce di pioggia in più che male fanno),  nell’auto che va piano e che si appanna dentro, coi respiri. Un pensiero per il pino che resiste fra salici e pioppi, un po’ sfibrato.
(Cantatina stonata in sottofondo.)
Lampi verticali e un po’ agitati: il prossimo è il mio, il secondo è tuo. Il mio è il più bello. Ma anche più nervoso.

Il temporale ora sa di zabajone.