Come elogio alla lentezza, dopo giorni spesi a rincorrere impegni e paure scivolosi come anguille, stasera cuoce il savor.
Gentilmente rumoroso, nel paiolo grande.
Risposta bassa e borbottante al tintinnio dei vasetti.
Per una tacita legge di compensazione, occorreva un rito che passasse per il fuoco. Un rito a disperdere i grigi e i neri che rigano la vita come codici a (s)barre.
Per questo, dal pomeriggio, qui si galleggia in un profumo vagamente etilico, che sa di uva, ma anche di foglie e di buccia, direi di freddo, di verde e di muschio. Pure di terra un poco fradicia e umorosa.
Com’essersi portati in casa una campagna intera.
Nel vino cotto, nel “sacro cuore” del mosto, lentamente contratto e infittito, si passano ( piano piano) pere d’inverno, mele cotogne e campanine, tocchetti di zucca e polvere di noce.
Fumano sortilegi campagnoli, a mezz’aria, in cucina, in cerca di pane fresco.
Ogni frutto diventerà bruno, tenero e profumato.
Indistintamente scuro.
Hegeliana vendetta del savor? Ma no, in bocca ciascuna cosa rivelerà il suo sapore. Dopo.
Come ogni giorno dice la verità solo quando è passato.