• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: dicembre 2005

La Dina

28 mercoledì Dic 2005

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 64 commenti

Aveva un chè, la Dina, un chè forse di tenero e severo: gli occhi attenti, l’espressione buona, ma come dietro un vetro di rispetto.
Non dava confidenza.
Per dire: niente mani, all’osteria, ad accompagnarla neanche per un gioco, niente scherzi.
Era lei, la più giovane di casa, che andava a comperare, dove c’era bisogno d’occhi aperti e di tirar sul prezzo.
E non provassero a ingannarla con certe galline, grasse e gialle, buone solo a far del brodo e poi e poi… “’Na gallina, ho detto, mica ’n asino che ti somiglia, ustion…”, ribatteva al contadino, e il suo ustion disegnava nell’aria un’ostia gigantesca, bianca e sottile: il sacro invocato a ombrello, che per tutta la vita fu  il segno universale di ogni suo risentimento.
Non perché alla Dina mancassero parole.
Anzi.
Solo parlava alla sua maniera.
Si innamorava d’alcune, le portava in giro e le addomesticava.
Le piacevano quelle da spiegare ad un “degno uditorio”: nella stalla, prima, e a certi tavoli dell’osteria, dopo. Erano le parole che leggeva nei Miserabili, la sera, quando le gambe le facevano così male, e lei, a letto, sotto il tetto, con l’armadio schiacciato dalla trave, tutte le ripeteva a voce alta. Con gli accenti ci prendeva poco, perché non è facile far suonare nella stanza le parole di un libro. Si ha quasi soggezione.
E le spiaceva che la Noemi se ne fosse andata; di nascosto le scriveva, là in Costarica, e le diceva, sì,  dell’Alda e della Zena e di suamamma e della Nella bella e degli uomini di casa, ma anche di Jeanvalejan e di quel che succedeva. A dire il vero, pure cambiava, perché, li avesse scritti lei, i Miserabili o la vita, non avrebbe fatto morire la Fantina di freddo.
Nel mondo della Dina nessuno aveva da sparire e anche il tirare il collo alle anatre mute era cosa lasciata a Guido suo fratello, e pure i conigli  e le faraone…
Poi, una volta sulla tavola, tutte scorticate e pelate e passate sotto l’acqua, le carni erano come le parole: da far rivivere per una gioia di sapore. Allora andavan bene.
Chè  la Dina inventava storie e piatti alla stessa maniera. Stavano nascoste, le storie, nella pancia delle parole, come nella pancia delle galline stanno gli ovini senza guscio, che, a farli cuocere nel brodo, sono una delizia di caldo e  di sale… Il regalo del brodo, come certi ripieni fatti di nulla e pangrattato, con l’anima di prezzemolo dell’orto. La meraviglia del poco.
La Dina spignattava e pensava alle storie che avrebbe raccontato nella sera, di bambini scambiati nella culla, di lattanti con il pelo matto in faccia, di maggiòrdomi fedeli o traditori e intanto, intanto diventava, lei, regina, regina di pentole e padelle fra sfrigolii e soffritture, regina di trippe sbiancate e poi arrosate, di stracotti lardellati con chiodi di garofano (quieti a  sobbollire nel barolo) e di polente scivolate lievi a sposare il burro e il parmigiano, pronte a rivoltare il gusto campagnolo nel rotondo di una punta di tartufo.
E quella sera, fiera di un racconto che era un tripudio di maccheroni col selvatico (voluttuoso di rigaglie e salsa ripassata…),  aspettava in fondo alla cucina il lieto fine: il piatto vuoto.

Tornarono indietro nove maccheroni.

La Dina scese dal trono e andò al tavolo della rivolta.
Lenta e decisa.
“Perché?”-chiese imperiosa.
“Formaggio. Colpa del formaggio- rise l’altro sotto i baffi, anarchico nell’anima e nel fiocco – As taca al piat. S’attacca al piatto. E questo non va bene.”
Il casaro le parlò, con poesia nuova, del latte che diventa grana e dorme nella crosta nera, perché il buio non ha altri colori. La Dina, rossa come un pito, ascoltò la storia dei paioli di rame. Vide forme ballerine e i riti dell’assaggio. Si ritirò, sconfitta.

Le portò il formaggio buono, l’uomo dagli occhi chiari. Un giorno. Come un anello, come una promessa.
Era la sagra del paese.
Andò nella cucina e disse: “Si balla, nel cortile”.
La Dina la regina, la Dina la severa disse di sì com’era, col grembiule a quadretti e le ciabatte.

Fu un valzer lungo e malandrino, di braccia morbide e un bacio a tradimento, dietro la pesa.
Durò più d’una vita.

Son cinque sorelle
son tutte belle
la Dina lìè la più piculina
l’Alda l’è la più granda
la Nela l’è la più bela
la Zena la g’ha la stela in front,
la Noemi al valisin pront.
Son cinque sorelle
son tutte belle.

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La Nella

23 venerdì Dic 2005

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 62 commenti

La Nella si ritrovò con mezzo letto vuoto, nella stanza della mele.
Così le restò la voglia di parlare e un modo lamentoso nella voce. Con le vocali lunghe e un poco strascicate.
La Rosina suamamma, all’osteria, non la voleva mezza: c’era d’accendere cent’occhi e poi e poi…. Perchè era troppo bella. Di quelle pelli fini e occhi chiari.
Meglio in cucina, ad asciugare bicchieri, a lustrare piatti fino a farli cantare.
Col collo lungo, tutto bello nudo, perché un ricciolo potesse figurare, la Nella raccoglieva la polvere del riso, sul fondo dei sacchetti, e la sfregava sulla pelle bianca. “Son mica contadina”, diceva.
E si specchiava nei coperchi: intanto sospirava. Fu un attimo chiamarla Piangerò.
“Ah, Piangerò, ridere bisogna…- diceva la Rosina – Coi sospiri non si arriva in cielo e non si trova neanche un buon marito”.
C’è che l’innamorato già l’aveva, la Nella, ed anche di lontano.
Due volte l’anno portava l’olio, sul carro coi cavalli. Restava dozzinante lì, nell’esercizio.
Aveva l’occhio vivo e la parlata svelta.
Le fece l’amore nel tabarro, una sera di autunno, dietro l’argine.
“Aspettami”, le disse, “chè ti vengo a prendere, ti sposo e porto via.”
Non era un mentitore.
Tornò  e si promisero, per la primavera.
“Se vedi delle cose, lascia stare.” – le insegnava suamamma nell’inverno- “Devi portar pazienza. Da chi vuoi mai cercar ragione. Sei là da sola …”

Il là era il mare.
Se forte veniva nostalgia, la Nella andava nell’ansa del mezzano, con le zucche abbracciate con le piante. Guardava il Po andare. Verso il mare.
“Vengo anch’io”, diceva piano piano.

Arrivò con le rose, già sposata, con la veste color tortora, di lino. Bella e raggiante, con le dozzine ben ripiegate dentro il suo baule.

“Quant’acqua senza neanche un argine” disse guardando il mare.

E col marito, visto sei volte in tutto, entrò nella casa coi gelsomini e i bossi vecchi e le taniche d’olio nel salotto.
Trent’anni.
Di vita non gridata, di figli e anche di dolori.
Chè ‘l Zanin teneva le altre donne. Una davanti a casa.
“Se vedi delle cose, lascia stare. Devi portar pazienza”, si ripeteva senza lacrimare.

Ma un giorno che lo vide traversar la strada e pulirsi i segni del rossetto, ridendo nel gesto di un saluto, non alzò gli occhi quando entrò in casa e non rispose.
“Ma qui siamo un po’ nervosi”, disse l’improvvido.

Trent’anni uscirono in una volta sola, come l’acqua che esplode in un canale.
Parole urlate negli orecchi e nella strada …
Figlio d’un cane, padre di figli grassi, unto e bisunto venditore d’olio, romagnolo falso e traditore, impostore e fedifrago, sporco di pelle e di anima, senza dio e senza fede… rovinafamiglie e spaccavite col pelo sul cuore….

Sul  Zanin, fatto di pietra come il selciato, rotolò l’ultima, furibonda frustata:  “ e po’, e po’  a gò  da dirat c’lè da trent’an ca t’am ruini al bro’, cal bon , ad galina … Ca t’ag zonti an cucier at  pumdooooor e ‘l pear…. Vargognat.* ”

Sotto il peso di quest’ultima accusa, biblica nella sua verità, la Nella tacque e tornò a rammendare le sue calze.
Silenziosa per altri vent’anni.

Son cinque sorelle
son tutte belle
la Dina l’è la più piculina
l’Alda l’è la più granda
la Nela l’è la più bela
la Zena la g’ha la stela in front,
la Noemi al valisin pront.
Son cinque sorelle
son tutte belle.

(* “e poi, e poi devo dirti che son trent’anni che mi rovini il brodo, quello buono, di gallina; perché ci aggiungi un cucchiaio di pomodoro e il pepe. Vergognati”  :)

L’Alda

19 lunedì Dic 2005

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 46 commenti

Che poi, lì, era una faccenda d’anima.
Come avesse fatto un’anima incantata a infilarsi proprio in quel corpo senza garbo se lo chiedeva anche la Rosina. ‘Sta figlia grossa e lenta pareva lavata nello zucchero. Certi centrini di cotone bianco e spesso, induriti in un bagno di sciroppo.
Poi le guardavi gli occhi e sapevi che la grazia sceglie le sue strade. Ci trovavi  un mentre trasognato, un dentro presente e separato, la mansuetudine di certe ciambelle che ringraziano il limone, per averle profumate.
A farle male era quasi rubare in chiesa: tutto le allargava gli occhi e le restava a girare nella testa, come le giostre di latta dei bambini. “Ma pensa”, ripeteva.
Chè il mite regala lo stupore.
E lo stupore è scendere le scale, guardar la vita in basso, tra i pieni e i vuoti di un centrino, tra le zampe di una cavalletta.

Così la Rosina aveva i suoi pensieri.
Con l’Alda che viveva coi conigli e non c’era verso di portarla  in piazza, nell’osteria che aveva ereditato. C’era da prender su una pelle dura, da essere svelti anche di parola.
L’Alda no che non voleva, coi cavatori che al bel tempo facevano notte a carte e il vino e le cantate.
L’Alda voleva parlare poco, cifrare le lenzuola, diradare le barbabietole e guardare le galline.
Chè in certi giorni di caldo, con la fatica del mietere nel sole, lei sentiva il giallo dentro e stava bene.

Fortuna grande che venne nella corte un uomo.
La vide trapiantare i suoi mughetti.
I mughetti sono ingannatori. Il bulbo è vischio e ti si sfoglia in mano.
L’Alda, tutta infagottata, con le mani grosse scuoteva la terra piano e la soffiava via, dalle radici di latte, con un sorriso buono.
Le disse: “Te sei del paradiso”.

Che ci si innamori di un soffio di pazienza è cosa strana.
Ma tant’è.
L’Angilin, ricco solo di fisarmonica e di braccia, si portò in chiesa l’Alda e la sposò.

Brutto affare la fisarmonica. Qui lo si sa che chiama il vino. La musica si sganghera, sale per la manica, cerca il collo e la gola.
Suonava e poi beveva l’Angilin, di una tristezza che spaccava il petto, la testa. Scaldava le mani e le faceva pugni. Senza memoria.
L’Alda era lì.
L’Alda era sempre lì.

La mattina, davanti ai segni rossi sulla faccia, agli occhi gonfi della moglie, “cos’è?”, diceva lui.
“La porta. La porta l’è dura”, sospirava l’Alda.
E piangevano insieme, seduti sul gradino.

Son cinque sorelle
son tutte belle
la Dina l’è la più piculina
l’Alda l’è la più granda
la Nela l’è la più bela
la Zena la g’ha la stela in front,
la Noemi al valisin pront.
Son cinque sorelle
son tutte belle.

La Noemi

11 domenica Dic 2005

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 79 commenti

Il fatto è che la Noemi nasceva ogni sera, quando la gente della corte si trovava nella stalla.
Erano ore di buio, dopocena, che in letto non mandavano nessuno: la casa era col gelo sventagliato ai vetri e l’osteria lontana. Oh, se era lontana l’osteria, nella nebbia che rugava la gola e si mangiava pure l’insegna di ferro. Una nebbia che neanche i fanali, che neanche le preghiere… Ché poi, se preghiere c’erano, erano quelle delle vecchie, e pure a rovescio: il piacere era tenerseli attorno, gli uomini, la sera. Non fuori. Lì, nella stalla. A guardare le figlie nei filòs, a tenerle in riga. C’era poco da fidarsi con gli sterratori in giro. Cavatori a giornata, al canale, braccia forti e mani svelte, presi a figlio per compassione e messi a dormire nella stalla, dopo, ad usci chiusi…
La Noemi scendeva fiorita nel bustino, con la camicetta delle feste, scura a piegoline, e lo scialle a coprire, chè la Rosina suamamma, se la vedeva prima, la faceva tornare su, a cambiar veste.
La Noemi aveva gli occhi neri e dritti, una di quelle bellezze spigolose che non si sciolgono in sorrisi dolci, ma si stringono nei vuoti della faccia. Aveva il petto fermo e la vita ben fasciata: di nascosto, s’imbustava  anche di notte per mettere la carne in posa – diceva – o per sentire l’effetto d’esser stretti al buio, col soffoco, rideva la Nella suasorella, che dormiva con lei nella stanza, con le mele campanine  a far tappeto brusco, sotto le finestre.

Entrava nella stalla per ultima e come una regina.
Sedeva lì, vicino alla Rosina, nella striscia bassa, di mezzo, fra le poste delle vacche, che voltavano la schiena.
A tirare dentro al sanguinello, che dentella le dita, e alla robinia, che cede latte amaro, per le ceste dell’uva e delle pere.
E a cercare con gli occhi, fra i  tanti, il Doru, bello come un dio, di sguardo frugatore.
Intanto, si lasciava che le mani andassero, che i bambini si nascondessero sotto le sottane, che le storie facessero il giro delle volte.
La Noemi le sapeva tutte, anche le storie di Sonia di Talem; le ripeteva piano, con gli accenti giusti e coi sospiri; Calanca, il contatore, guardava lei, se perdeva il filo, ché tanto lo trovava sulla bocca.
Così mi scaldo – diceva lei: ch’ era un bel volere star caldi con sei vacche su uno strame fermentato. Il fieno dava d’acido, nella stalla grave dei vapori delle bestie.
E anche di parole.
Quelle rosse, con i baci e il tremore della gola, la Noemi le diceva con gli occhi ben piantati in faccia al Doru.
Le sentiva dentro, che picchiavano nel petto: allora tirava i salici del cesto, come fossero i capelli della donna, che l’uomo le aveva preferito.
Il Doru la guardava, la guardava.

Quando una sera la aspettò, giù dalla scala, nello sbieco di ombra della porta, la prese per un braccio… “Se vuoi…”

Tornò di sopra la Noemi, senza volere.
E le sorelle si tagliarono i capelli, di martedì, il giorno di mercato, per vendere le trecce.
Coi denari la Noemi prese il vapore.
Partì da Genova, senza dir niente a nessuno.

Son cinque sorelle
son tutte belle
la Dina l’è la più piculina
l’Alda l’è la più granda
la Nela l’è la più bela
la Zena la g’ha la stela in front,
la Noemi al valisin pront.
Son cinque sorelle
son tutte belle….

Bicimongolfieravela

07 mercoledì Dic 2005

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 65 commenti

C’è nella mia casa, porto di mare senza sirene e babele di libri fogli e foglie, la stanza per i silenzi.
È una stanza di buon carattere: guarda la strada, che si apre in fondo, e, se solo si sporge, incrocia i colori del ginko biloba, l’ultimo a lasciare il giallo. In genere è quieta e sfoglia vecchie pagine.
Per ringraziarla di tante mute regalie, la accendo di ciclamini piccoli o di erica bianca, perché i fiori sono il mio modo di dipingere i pieni e i vuoti di gratitudine.
È l’unica stanza che io e il compagno della mia vita non dividiamo mai, per un tacito patto.
La usiamo in alternanza.
Nel resto della casa piace sentire la corposità della compresenza.
Lì, invece, si sta bene soli: la stanza tiene senza comprimere, diventa latte caldo se c’è freddo, diventa lavanda e menta se c’è malessere.
Una volta era la stanza eletta per ascoltare la mia musica, quella di cui neanche riconosco il nome, ma che so passo a passo, perché l’accompagno nel suo viaggio lungo la mia vita.
(Vivo nella suprema indifferenza per nomi numeri dati di qualsivoglia natura, io. Li vorrei scivolosi e malcerti… Fosse per me, anche noi cambieremmo nome, nelle nostre stagioni, e le cose… poi…)
Eppure, in questi giorni, ritirati e infittiti come una maglia di lana, persino la musica sembra far rumore.
La mia stanza lo sa e tace.
Offre una poltrona al cappotto, che è fatica riporre nell’armadio, e l’altra a me.
Sa che ho bisogno di tacere perché le energie tornino a fluire, le mani si scaldino, i pensieri si sgelino e il fare, sempre in combutta col dovere, lasci il posto a vagabondaggi non finalizzati, al perdere tempo, alle voci di piacere. Ah, poter dire e sentirsi dire “non c’è obbligo”.
Respiro.
Respiro al ritmo della camera. E l’ascolto.
Sembra che fermarsi sia questione di un attimo, il prossimo.
Da piccola tenevo il fiato più che potevo, perché doveva pur succedere qualcosa. Magari il fiato trovava altre strade; fluitava nelle vene?
Perdevo la scommessa e aprivo la bocca.
Adesso assorbo il canto della stanza silenziosa, in cui non si cucina, non si ripongono cose, solo si scrive senza monitor, solo si legge…
Ascolto l’anima del pavimento che risponde ai passi, il grattino del pennino sulla carta, così diverso dal suono secco della tastiera, che lascio tranquilla, perché si decomprima e mi saluti, al ritorno, senza ricordare il lavoro.
In questo silenzio, sto con il brusio dei linguaggi interiori, che lentamente affiorano come sgravati dai pesi. E cerco risposte morbide a quel filo di pensiero che, lento e interrogativo, trova le fessure del pavimento di legno.
La bicimongolfieravela è pronta.
Vorrei  fosse già sera.

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