• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: marzo 2006

Gite (divagazioni fuori porta)

27 lunedì Mar 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 71 commenti

Torno sempre a casa di buonumore, dopo una gita scolastica.
Distrutta, ma di buonumore.
Un po’ perché sopravvivere è già un risultato, e poi perché mi piace sogguardare i ragazzini in situazioni nuove.
Qui, da queste parti, teatro vuol dire Ferrara, che diventa meta di eterni ritorni.
E’ che, per la par condicio professorale, si scelgono cose diverse: insomma, oggi tocca a Mozart e al suo Impresario teatrale, in una saletta finalmente bella e bianca come una bomboniera.
Sembra la terra promessa dopo un treno scosso e un tram costipato.
Sì, va bene, la recitazione è così così così, la parte canora anche: la soprano cinese miagola (però s’impegna), l’altra, l’altra mica si capisce … Al suo apparire si accende un dotto dibattito fatto di bisbigli : ‘è un uomo è un uomo’, ‘ ma no no, varda i piedi, non sono poi così lunghi’, ‘e tu guarda le braccia, c’è un tatuaggio da marinaio. Prof., vero che è un uomo?”
Vorrei sprofondare nel buio, perciò mento e giuro:  trattasi di una “costellazione di nei”, che fa molto settecento.  E poi staremo mica a formalizzarci, neh?

Si esce da teatro con il cuore leggero, con la testa leggera, canticchiando insieme l’aria di “sono la prima cantante…” : c’è il sole, un fresco da lepre marzolina, una scia (non proprio maleducata, solo un po’ distratta) di briciole di panini ( che Pollicino, al confronto è un dilettante). La musica mette appetito, la voglia di ridere e di godersi la città. Oggi si sta fuori tutta la giornata, a rubare un’idea per scrivere racconti rinascimentali, sospesi fra il vecchio e l’addizione erculea.
Ecco, tutto sta andando per il verso giusto.  Sfuggiti alle insidie sirene del Mc Donald, stiamo mangiando sani multistrati portati da casa, all’ombra di un chiostrino, con un profumo che va dai toni della mortadella tartufata al prosciutto san Daniele, quando risuona la parola che non vorresti mai sentire. La parola che sa di dolorosi pellegrinaggi e stilettate inferte al buon gusto…: REGALINI.
L’immagine evocata risveglia pure la ragazzina del Marocco, che sa pochi termini italiani, ma questo sì: RIGALINA, RIGALINA.
Che fare?
Benevolmente, in sosta post prandiale, si decide di prendere il mondo dei cadeaux con filosofia.
Andate, non esagerate, si può andare da qui a lì. Vi aspettiamo al muretto. Non comprate schifezze, per favore.
Il ricordo va a piattini fosforescenti con coccinelle in rilievo, come foruncoloni rossi su un ramarro, per le mamme, a piccole bare portachiavi per il babbo (variante: finto osso di dinosauro, presso siti archeologici), a stiletti di plastica, imitazioni di armi medievali, per il nonno depresso, a crocifissi di abete (tre chili), come ciondoli per girocollo, portatori di scoliosi a nonne innocenti…

Arriva il bambino piccolo e cespuglioso, bisognoso di una consulenza.
Il mio ego educatore ha un sussulto di compiacimento. Un allievo che chiede consiglio per evitare brutture universali.
REGALINO PER LA MAMMA. Caro caro bambino cespuglioso.
L’occasione per una lezione di stile: qualcosa di semplice e di femminile, si suggerisce, qualcosa che non sia necessariamente legato al luogo, qualcosa che faccia piacere a chi lo riceve, che si possa tenere vicino, come ricordo.
Nicolò sorride, grato, e corre verso il destino.
Torna dopo un po’ con una sportina di plastica, recante un ambiguo, rotondeggiante gonfiore.
Cos’hai comprato per la mamma, allora?
Un maiale di peluche.
Fucsia chiaro, col muso più intenso.
Sferico.
Marmoreo.
Lo ha appeso allo zaino e ha fatto scuola.

Siam tornati a casa con un branco roseo.

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Tasti & tastiere (divagazioni scolorite)

22 mercoledì Mar 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 74 commenti

Mi si è scolorita la tastiera.
Mi sono morte lentamente la ‘n’, la ‘m’ e la ‘l’.

Questo getta ombre sinistre sulla mia scrittura (vagamente sbiancante: toglie colore? scioglie le lettere, specie quelle liquide, effetto candeggina?).
Vero è che la faccenda mette in cattiva luce anche le tastiere.
Ne parlavo per lettera con un amico, tempo fa: le tastiere, bisogna avere il coraggio di dirlo, hanno cattivo carattere.
Abituate a stare in basso (rispetto al monitor), secondo me coltivano complessi di inferiorità che le rendono vendicative.

Le tastiere più altezzose sono legnose e accompagnano il movimento delle mani con un ticchettìo lievemente tedesco. Ne escono scritture segaligne, che sembrano aver fatto le scuole in certi austeri collegi nordici.

Le tastiere più sensibili schizzano subito: silenziose e operose, sembrano pattini. Vuoi scrivere una ‘g’? In rapida successione fanno fitto sul monitor anche una ‘a’ e una ‘t’ . I tasti si muovono con la forza dei pensieri. Ne escono scritture “fiumanti” e ubertose, coi pampini e le foglie, docili alle idee.

Le tastiere più bugiarde, invece, hanno i tasti falsamente morbidi e retrattili, in realtà affondano solo per prendere la spinta sufficiente a creare un molleggio terribile, che assomiglia al beccheggio di certe imbarcazioni, portatore di mal di mare. Ne escono scritture vibratili ed emotive, dal sapore tremulo e ottocentesco.

Un caso a parte sono le tastiere come la mia: hanno dei momenti di auto-esaltazione che alternano ad altri di depressione.
Premi un tasto e quello si rigenera: batte le ciglia e scrive tre, quattro volte la stessa lettera, come se dicesse “visto che efficienza?”. Poi si sgonfia come una vescica e ti lascia intendere che è esaurito: si blocca perché si sente un tasto doloroso della tua vita. Lo premi a vuoto, lo senti chiuso nel suo incanto. Tasto autistico.
Tu gli sussurri… “dai, su su… vero niente, nel tuo genere sei anche un bel tasto”: se si riprende c’è qualche speranza, altrimenti bisogna pensare ad una protesi…
Il risultato è comunque una scrittura diseguale: a volte un po’ ripetitiva, a volte muta come certe acque troppo quiete.

E ora?
Che scrittura uscirà dai tasti bianchi?
La pagina crepita a nuovi spazi d’indecisione.

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16 giovedì Mar 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 47 commenti

(racconto zoppo n.2)

Il corridoio sa di minestrone.
Verde.
Le tende solo un po’ più chiare.

E’ piccola la stanza; il letto, spinto al muro, illude.
Scacchi di graniglia, sul pavimento: triangoli e rombi stretti stretti.
A impegnarsi, guardando, si trovano, instabili, le forme.

Cosa si può mai fare, qui.
Stare seduti, dire due parole. Leggere un po’, ma poi la testa, ma poi la testa…

Si parla del bagno: è così grande, coi maniglioni da palestra.
Ci stanno dentro due infermieri a volta.

“Si rovescia la vita.”- dice. “Adesso si sta a letto da soli e in bagno in compagnia”- e ride sottogola.

Torna e ritorna sulle cose, prende tempo ma non passa il turno: vuol parlare lei.
Quasi suggeriresti la parola nota, che ora non arriva.
Tu la conosci e aspetti.
Quasi la speri, a verifica che i conti tornino e gli ammanchi non siano, di giorno in giorno, dolorosi.
Quasi ripeti la domanda apposta, perchè il suono affiori, come d’abitudine.

Nel pavimento, fra la graniglia, c’è una porta che si apre, ma non puoi scappare: se inclini la testa, subito la perdi e trovi una valigia.

“ Sono una coperta, che non tiene più. Non c’è da rammendare, siete voi i miei punti.- e cambia, per non stare sul pensiero (si direbbe un tono da capriccio, un tono un po’ bambino) – “ Domani voglio il pane di forno, che qui sono diversi e lo fan duro.”

Punti e ponti han lo stesso suono, a casa nostra.
Uguale.
Un ponte di punti a catenelle, coi minuti molli e senza nervo.
Un ponte di coppiette secche, di ricciole croccanti che strusciano il palato, ma senza resistenza.

Si porteranno punti di pane e, insieme al caffè clandestino, ponti di filo grosso.
“Domattina presto”- dice.

Nel pavimento ora c’è un vaso di strelizie. Sono dure le strelizie. Sembrano uccelli di ferro arroventato. Pungono dentro. Il becco si pianta e pesca in acque vive.

Il lenzuolo

12 domenica Mar 2006

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 42 commenti

Qui vicino c’è un paese che t’accoglie con la sbarra del passaggio a livello.
Non è né bello né brutto: è un paese e basta, coi portici diseguali e una chiesa che non dice niente.
Mediatori in piazza, la domenica mattina.
Qui, però, c’è una donna vecchia, con gli occhi scuri di contadina furba: si tira bene i capelli sulle tempie e li ferma dietro le orecchie, mette le perle al collo per le fotografie e la camicia con il fiocco davanti.
Ha lavorato la terra, dove la chiamavano, ha fatto i figli e se li è tenuti attorno, ché non s’arrampicassero sugli alberi del padrone, per via dei frutti.
Poi ha salutato il suo uomo,  andato sotto terra, e una notte ha tirato fuori dall’armadio un lenzuolo, che non avrebbero più consumato insieme.
A due piazze, grande, di dote.
Il letto era vuoto e lei se l’è spianato bene sul cuscino, e l’ha percorso, da un capo all’altro, con la penna a punta grossa, nera, e la scrittura di chi ha fatto poche scuole.
La Clelia ha scritto la sua vita su un lenzuolo di tela forte.
Avanti e indietro, coi numeri a sinistra per non perdere il conto:… i pensieri, sì, … il filo, sì , qualche volta si è perso, perché è lunga la strada da un bordo all’altro del lenzuolo, c’è un mare bianco in mezzo e le parole s’inchiodano dentro le rime in are, dentro le doppie che non fanno musica. Le parole acchiappano al volo gli accenti: ah, gli accenti  occorrono, per fermare la voce.
E i ricordi, anche i ricordi vanno e vengono. Non c’è orologio a dar la dritta.
La mano non corre ballerina sulla tela, non scivola, fa onde, invece, che salgono e che scendono: rigano malferme malcerte il bianco, a dire quel che c’è dentro la vita e che può stare in un lenzuolo lungo e largo.
Sa di corpo, ‘sto lenzuolo. Solo a muoverlo, solleva tanti nomi, quanti nomi: uno sciame di bruscoli, se una fascina cade.
È voglia di libro, ‘sto lenzuolo, e poesia.

A pensarci, vien da chiedere quanta tela occorrerebbe per scaldarci con la nostra vita.

Questo è un post di due anni fa, dedicato a Clelia Marchi, che ha scritto la sua vita su un lenzuolo.
Da qualche giorno la Clelia non c’è più.  A noi, che l’abbiamo conosciuta, resta la sua voglia di poesia e il desiderio di ricordarla, ancora.

Racconto zoppo

06 lunedì Mar 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 55 commenti

Dalle giornate strane nascono racconti zoppi.
I racconti zoppi non vanno da nessuna parte, restano incollati all’anima. Adesivi.
Sono lunghi un centimetro.
Si dicono nell’attimo che accadono, poi stanno lì.
Come quei ricordi rannicchiati nella pelle, che arrivano al risveglio. E non han parole. Le rubano strada facendo, nel mattino.

Oggi c’era tutto quello che serviva: lo stupore nell’aria, il freddo lucidato, gli alberi a ventaglio.
I nidi delle cornacchie esposti e penduli, fra i rami. (Pioppi marsupiali)
Avevi ben da contrastare il cielo con il lato prosaico della vita: sportina in mano, meta cassonetto.
La ragazza, avanti pochi passi, sobbalzava a ogni macchina in sorpasso.
Poi una frenata, una portiera aperta. Un bacio. Via.

E io lì con la sportina in mano, a sapere esattamente il come. E a tornare indietro, a certe mattine fredde e lontane: uscivo di casa e vedevo la macchina ferma un po’ più in là. Qualcuno si era alzato presto per portarmi alla stazione.
Salire e stringere una mano, nel tepore della macchina in attesa.
La pelle fresca sotto un bacio. Vetiver leggero.
Speranza che la stazione sprofondasse sette leghe più in là.

E la memoria è una colonia di pesci guizzantini nello stomaco.

Fili

01 mercoledì Mar 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 47 commenti

Ero a teatro stamattina, in una di quelle brutte sale (di una bella città) che vengono riservate agli spettacoli per ragazzi.
Come se i ragazzi, soprattutto i ragazzi, non avessero bisogno di bellezza.
Fate finta che sia il Bibiena, dico io, davanti ad espressioni deluse.
A luce spenta, la brutta sala tace e prende forma una cosa bella: una storia raccontata attraverso i fili, in combutta con le Moire.
In un grande telaio ogni azione, ogni evento lascia la sua traccia.
Proprio dentro l’ordito resta intrappolata la memoria del racconto: il suo canovaccio, fatto di garze, di imparaticci, di matasse, di gomitoli, di tessiture, di panni filati .
Un canovaccio simbolico e ospitale.
Esco.
Ci sono metafore che restano appese nella vita e che ogni tanto incontri, in condivisioni inaspettate.
Ci si riconosce, ci si saluta, ci si scambia ancora qualcosa.
Stamattina ho ritrovato i fili, appunto, che mi accompagnano da sempre.
Per me, che vivo “lungo il fiume”, lo stesso Po è un filo.
Il filo dello spazio che suggerisce un bordo, una riva da profilare, una linea che si estende.
Il filo del tempo che procede. Io vado innanzi per sempre! , dice il fiume di Tagore.

In treno, mentre i ragazzini, per esorcizzare le emozioni, sperimentavano certe fialette ad alto indice di sgradimento olfattivo, ho cominciato ad infilare “perle” nel filo del mio hic et nunc.
Non della vita, che altro viaggio richiederebbe.
Del punto in cui mi trovo.
E’ un filo multiplo, ben ritorto: chi potrà mai separare pensiero, speranza e memoria?
Richiede grani grossi o trame larghe:
un sasso poroso e trivellato, sporco d’inchiostro ( assorbirà le parole? arginerà il lavoro?),
una pietra pomice per grattare spigoli,
una pietra azzurra per i voli,
l’anello giallo e liscio di sempre,
tanti bottoni d’osso, che allacciano gli affetti di casa,
un pezzetto di vetro da ricordo per farmi male,
un’ onice nera, perché il dolore è da mettere in conto,
qualche grano d’argento brunito per gli amici vecchi,
un foglietto bianco appallottolato, tante volte preso in mano e poi lasciato,
quattro piccoli gomitoli di lana calda,
i nodi stretti delle amicizie nuove, che vivono di voci e di rimandi,
il pezzetto di tela di un lavoro infinito,
un’ala di tulle per la leggerezza….

La sento al collo, ora, questa collana, e accarezzo la pietra che non c’è.
Perché il giorno-domani avrà pur da regalar qualcosa a questo filo.

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