La meraviglia dell’andare a letto stanchi è la lentezza stiracchiata del mattino dopo.
Ozioso.
Per un po’.
I pensieri galleggiano in palude, non seguono un’idea fino al suo compiersi: l’accompagnano per un tratto, poi la salutano e si fermano in un punto di sosta imprecisato.
Son sfilacci svogliati.
Sanno di incontri e di saluti fra pacchetti, di una piazza che si insegue e si allontana, di tangenze di parole e voci, nella cornice di un balcone o di un’arena grigia.
(I ricordi recenti sono palazzine fai da te: restano sempre un po’ incompiuti)

Si vorrebbe tenerle strette, queste zaffate di realtà gentile, ma sono aria e cercano le piume del cuscino.
La volontà si perde nelle opzioni.
Pare già di vederla, lì, seduta accanto ai tuoi pensieri, su una panchetta scivolosa: insieme giocano a bolle di sapone.
Imprendibili.

E la luce arriva a cerchi arancio, ora.
È chiaro, fuori. E il merlo, che non trova il nido, è già rissoso.

Nella vacanza del volere il corpo sa che cosa fare: decide e chiede automatismi di sapienza antica.

Il caffè è nella tazza, senza pioggia di gocce avventurose.
Il bucato è presto ritirato. In pile di ondeggiante geometria.
La spirea bianca, che intende ricadere, è contrastata con un bastoncino (gli occhi han visto la forcella).
Il giacinto, che ha già dato, è liberato dall’eccesso verde. Un colpo di forbici, deciso.

Bello sapere i gesti.
Il sempre è cosa loro. Sono molati col tornio del tempo e del fare.
Robusto vaso di certezze.
Ma cosa sarebbe, questo vaso, senza fiori, pensieri mutevoli ed erranti?