• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: giugno 2006

Padri

26 lunedì Giu 2006

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 61 commenti

Lui era partito per la guerra grande, con la moglie già grossa.
La prima volta, sposi da poco.
Pancia bassa con la punta un maschio annuncia, le dicevano in campagna, le donne, quando lei si tirava su e si teneva la schiena con le mani.
Il marito non tornò da vivo e il bambino venne al mondo senza santi in paradiso.
Per lei neanche una tomba da curare, con l’erba e con le viole. Solo il vestito buono nell’armadio, ché alla guerra si va come al lavoro.
Neanche una famiglia dove andare.
C’era da restar lì, a diradare biete e cipollini, il bimbo sotto l’ombra, al fresco insieme all’acqua.
Ma la casa, ma la casa…
‘C’è quella dei vecchi. – disse il cognato – Si fa a metà: una stanza sotto e una su, per ciascuno’.
Una casa con le scale in mezzo a separare, di giorno, e il piano in alto a unir di più, la notte, con le stanze che si toccavano di testa.
‘Sì, ma io so esser di uno solo’ – disse lei, occhi bruschi e piega dritta in fronte.
Era un uomo di cuore: capì.
Si strinse nella parte sua, di giorno, e ascoltò, di notte, ogni rumore.
Sentì quel nome di fratello traversare il muro tante volte.
Poi passarono pianti, non solo di bambino, e soffi nel cuscino, e passi inquieti nelle notti calde: finestre aperte a cercare tregua.

Non la toccò mai, neanche con un dito.
Solo il muro, qualche volta, come potesse diventare stoffa e dire…’vieni di qua, in questa notte lunga’.
Di giorno, il maschio da tirar grande.
L’uomo fece da padre nella stanza accanto.
Imparò ad agguantarlo, diavolo che correva troppo, a snidarlo se imboscava la scuola.
Gl’insegnò le cose che una donna non può. A stare sul carretto e a fare oh oh con la briglia un po’ molle e un po’ tirata. A pasturare l’acqua del canale e a prendere le rane col sarlet. A legare la vite stretta e a tagliarla con il clinto, per il vino. Poi insieme coi cani, lungo i fossi, a cercare lumache e uova di quaglia.

Neanche una festa, neanche una bevuta, qualche volta le braccia della Gilia, che a pagarla era moglie di tutti.
C’era da restar lì, a tirar grande il figlio del fratello e a dar ‘na mano a lei, ma senza dirlo: zucchine e peperoni già nella cesta, nell’orto, l’anatra spiumata appesa alla maniglia, la legna tagliata dentro il rustico, il fuoco acceso nella corte per lavare. E lei, lei a dare un punto a quella maglia sua, e a far bugada generosa, cosa sarà mai, un lenzuolo in più.

Insieme e separati
A darsi del voi e a diventare vecchi.
Senza essere, fra loro, uomo con una donna, donna con un uomo.

Il ragazzo sposò, fece figli e rimase nella casa alzata di un piano.
Aveva rughe e braccia meno forti quando la madre con gli occhi bruschi e lo zio con la faccia rossa, tanti anni ciascuno, gli andarono incontro: ‘Abbiam da dirti una cosa .- disse lei – Stanotte io dormo nel suo letto. Anche domani.’
E voltò via.
Il vecchio abbassò gli occhi chiari e la seguì.
Il figlio non disse niente e sentì strano.
Passando, a notte fonda, vide un filo di luce uscire dalla porta socchiusa, al piano alto.
Guardò: seduti sul letto, tutti vestiti, giocavano a carte sul cuscino in mezzo e ridevano piano.
‘Sono gran lunghe le notti’– disse il vecchio, guardandolo buono.

La porta si richiuse piano piano.

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(Nuvole e nebbie)

24 sabato Giu 2006

Posted by colfavoredellenebbie in accompagnamenti

≈ 19 commenti

Ho sempre pensato che, nella circolarità dei destini, alla nebbia tocchi in sorte la necessità di diventare transitoriamente nuvola, ma mai ho pensato di poter incontrare parole così belle per dirlo.
Le ho ricevute in dono: non posso tenerle solo per me; le metto a disposizione di chi, qualche volta, ha pensato di «Mangiare nuvole e nebbie», di «Carezzare nuvole e nebbie» e di «Dormire tra nuvole e nebbie».
Grazie a Mario Bianco dei cartografi folli: fossi capace farei un link, ma tant’è…  :)

Queste variazioni non erano dovute unicamente alla temperatura e alla luce, pur così mutevoli in questa regione; erano invece causate dalla presenza di nuvole e nebbie, parte integrante del monte Lu. Esse conferivano al paesaggio un’atmosfera a volte diafana e azzurrina, a volte densa e compatta come le immagini che vediamo incise o scolpite sui paraventi.
«Nuvole e nebbie del monte Lu», talmente famose da diventare un motto che sta a indicare un insondabile mistero, una bellezza nascosta e ammaliante. Con il loro moto capriccioso, imprevedibile, con quei colori incerti, rosa o porpora, verde giada o grigio argento, trasformavano la montagna in un’opera di magia. Volteggiavano in mezzo ai numerosi picchi e dossi del monte Lu, indugiando nelle vallate, levandosi verso le cime, e così conservando intatta un’aura di mistero. Ogni tanto, all’improvviso si dissolvevano svelando all’occhio umano tutto lo splendore della montagna. Con la loro serica consistenza, il loro profumo di sandalo bagnato, quelle nuvole e nebbie erano paragonabili a un essere materiale e al tempo stesso irreale, un messaggero venuto da chissà dove per dialogare un attimo o a lungo, secondo l’umore, con la terra. In certi chiari mattini, insinuandosi silenziose tra le persiane, raggiungevano gli esseri umani per carezzarli in un abbraccio dolce, profondo. A sfiorarle appena, si dileguavano subito, silenziosamente, via! lontano da tutto. Certe sere, la fitta nebbia unendosi alle nubi in transito causava precipitazioni, acquazzoni improvvisi che rovesciavano un acqua pura in vasi e brocche collocati dagli abitanti del villaggio al piede dei muri. Con quell’acqua si faceva il tè più buono della zona. Finito il temporale, rapidamente squarciandosi le nubi svelavano in un lampo la cima più alta. Circondata da dossi e alture, la vetta serbava intatto tutto il mistero della sua altera bellezza, con le sue rocce fantastiche che si levavano minacciose, aureolate da una vegetazione anch’essa fantastica da cui liberamente si riverberava l’incerta luce della sera. Intanto le nubi ammassate a ovest formavano un immenso mare in stanca in cui s’immergeva il sole calante, vascello fantastico in una fantasmagoria di mille fuochi multicolori. Un attimo dopo un velo di nebbia violetta celava la vetta, diventata di nuovo invisibile. E questo era normale, data l’ora in cui il monte Lu fa il suo quotidiano viaggio in direzione ovest, per rendere omaggio alla Dama dell’Ovest dei taoisti o per salutare Buddha. Sembrava, in quei momenti, che l’universo si rivelasse nella sua realtà nascosta di essere in continua trasformazione. Ciò che era apparentemente stabile si fondava sul movimento; ciò che era apparentemente finito annegava nell’infinito. Non c’era niente di stabile e definitivo. Nulla è più vero di questo, dal momento che ogni cosa vivente non è altro che «condensazione del soffio».
A partire da quegli anni, seppure ancora confusamente, intuii che la nuvola sarebbe stato il mio elemento – questa cosa immateriale eppure consistente, presenza eterea e quasi palpabile. Più tardi avrei capito – una volta in età di capire perché i cinesi sono così appassionati di nuvole – perché usano l’espressione «nuvole e piogge» per designare l’atto amoroso e la condizione dell’estasi, perché i poeti e i taoisti parlano di «Mangiare nuvole e nebbie», «Carezzare nuvole e nebbie» e di «Dormire tra nuvole e nebbie».
Tutto sommato, che cosa è la nuvola? Da dove viene? Dove va? Io che avevo modo di osservarla con tutto agio, vedevo che nasceva dalla valle sotto forma di nebbia levandosi fino a toccare il cielo dove vagava a suo piacere assumendo forme diverse, secondo il tempo o il vento. Ogni tanto, quasi a non dimenticare la sua origine, consentiva a cadere di nuovo sopra la terra sotto forma di pioggia, chiudendo perfettamente un percorso circolare. Era perciò sempre in qualche luogo.” (“Le parole di Tianyi” di Francois Cheng)

Dispersioni

21 mercoledì Giu 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 38 commenti

Fuori c’è un caldo grigio.
Non quello che passa a sbuffo, s’accende e si spegne a seconda del traversare la piazza o del costeggiare un muro.
Quello che grava con le ‘a’ tutte aperte, a zampe divaricate, nell’indifferenza dell’ombra.
Limaccioso e senza slancio, sciropposo e lento.
Si è addormentato sulle antenne e cola.
Ogni fessura è buona per entrare: la piega del gomito, il soffio fra due pagine, l’intervallo di un respiro.
E poi i buchi dei pensieri.
Li forza, li slarga e li allenta. Gli orli si arricciano e non collimano più.
Pensieri aperti, vergognosi.
Come ferite.
Con le idee che svaporano o si snervano, a penzoloni.

Soffro la pesantezza delle cose che non si vedono.
Quelle che dilatano dilagano dilavano.
Soffro la pesantezza del caldo.
Onde in crepe larghe, distanze da pressione.
Dispersioni opache.
Il freddo stringe, tiene e fa tenere.
Il caldo è ottuso come un silenzio di stoffa.
Non sa legare.

Giugno

16 venerdì Giu 2006

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 28 commenti

I primi giorni di vacanza rintronavano nella testa, come un’otite mal guarita; nelle orecchie, smerigliati, i suoni della casa erano voci sirena in cui piano piano navigare. Sparivano gli oggetti della scuola come per autocombustione e restava il TEMPO.

E tempo significava abile ripartizione di pacchetti di giorni: un po’ di qua, un po’ di là, in un roteare di prestiti a parenti che si raggiungevano col cuore sospeso e la vergogna degli approcci.

Ma c’era un tempo che si spendeva nella attesa delle partenze. Quello, sì, mi piaceva: a scadenza, ma sfilacciato, leggero di programmi, un tempo con le vestine corte.

Scatola poco segreta di questo tempo era il viale, con bambini ad ogni casa, a spiare l’uscita del vicino, nelle ore del caldo, alibi per insistere “Vado fuori anch’io”. A giocare. E la pelle delle gambe faceva zviiiiig scollandosi dalla Frau, dove ogni giorno leggevo di Ercoli, Idre e Ninfe assortite, e scappavo fuori.
Il sonno era lasciato al resto della casa, che alle due si sgonfiava. Niente lavori, niente rumori, solo l’odore della conserva, a memoria di un ragù che aveva lasciato soddisfatta la tavola.

Le fughe si consumano sempre nel silenzio e si portano dietro il profumo di un luogo.
All’uscita il caldo ti prendeva chiaro, come una persona amica, con l’invadenza di un abbraccio che gratta un po’ la pelle.

“Dai, che andiamo alla stazione-porto”.
La repubblica delle bambine – per un sotterraneo sincronizzato tam tam – era già lì, con la sua gerarchia di capi e la sua mappa di luoghi.
I maschi del viale, sogguardati e respinti di giorno, venivano buoni solo verso sera, quando, tutto rilavato, il mondo bambino tornava giù in strada, per altri giochi più quieti.
E poi, chi li voleva i maschi? C’era quello lungo che diceva a tutte “mutanda del mio cuore” e io scappavo in casa rabbiosa dalla zia sarta: “le voglie lunghe, le sottane, le voglio lunghe….”

Alla stazione-porto i maschi non ci venivano. Dentro il magazzino, su scale di cassette per cipolle, in un leggero svolettare di bucce residue d’oro rosso, viveva, ben organizzato, il condominio delle bambine. Orma di casa, fetta di casa, in cui recitare il teatro dei ruoli. Su e giù , fra appartamenti ampi e stretti, panoramici ed oscuri, secondo regole di potere e di agilità: le grandi comandavano e le piccole ubbidivano…. le grandi davano la trama del gioco.

Quel giorno la bionda, forte dei suoi undici anni, aveva l’agitazione inquieta di chi le ha appena prese e si muoveva sui suoi sandali a strisce marrone- modello S. Francesco, come se le gambe lunghe fossero molle a scatto.
Io, nonostante i sandali, la rispettavo molto, e un po’ la temevo, per certe storie che mi raccontava, di vecchie col pelo matto in faccia che uscivano di sera a portar via i bambini,con la scusa di guardare i gerani delle case.

“La prova, – cominciò a ripetere con la voce forte, davanti alla stazione porto, col suo bel sagrato lastricato da cipolle marce- ci vuole la prova per entrare qui dentro. Le piccole devono prendere una lucertola e staccarle la coda”.
Le altre grandi ridevano e si davano delle arie. Le piccole non fiatarono, per darsi un contegno, anzi corsero via, verso il muretto miniera di lucertole.
Io stavo lì, a darmi della stupida per essere uscita di casa: avrei potuto finire la storia di Io, trasformata in mucca, e invece dovevo prendere le lucertole, che, fra l’altro, mi erano anche simpatiche. Mica erano come i rospi, loro, che, se facevano la pipì negli occhi – diceva mia nonna –facevano diventar cieca la gente. Ma come facevano poi a centrare proprio gli occhi della gente?
Non mi muovevo. Davanti agli occhi vedevo la pancia giallo- molliccia delle lucertole e la coda a tergicristallo e le zampe. Sicuramente avevano gli artigli e graffiavano e forse la pipì la facevano anche loro.
“Dai, muoviti fifona che qui dentro non ci vieni più…”
Le grandi mi parevano odiose, là con le gambe a penzoloni dalla finestra – ingresso per il paradiso.
“Stateci voi, lì dentro, che fa schifo e puzza. Non ci vengo, io. Tanto domani vado via. OCCHI DI MELANZANAAA!!”
E scappai, lasciando nella scia l’offesa più brutta.

Visto che li avevo, io li odiavo gli occhi scuri, e, segretamente, continuavo a guardare in alto, appena potevo. Se a fissare il sole ci si abbronza, a fissare l’azzurro qualcosa dovrà pur succedere.

Fra gli alberi, a teatro

10 sabato Giu 2006

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 48 commenti

Tag

passaggi

(Il sole arriva da destra, sbiecatura sporcata dai ciliegi grandi e dalle querce)

Ai piedi dei ciliegi grandi e delle querce, una radura irregolare e scontornata: erba secca e terra battuta.
Al centro della radura, una stuoia di giunco, stretta e allungata.
Sulla stuoia di giunco, due ciotole di tempo: una per la neve, in petali di carta, e per la pioggia di riso, l’altra per il rito del tè.
E poi.
Un telo bianco, per i silenzi e le assenze.
Un panchettino di legno, per il sonno.
Un ventaglio invaso da un uccello, nero, delle cime.
E ancora.
La storia, le storie, lì, nel teatro fra gli alberi.
Le parole di Kawabata.
Tutte nelle voci dell’Attore. Nei suoi gesti. Nel suo corpo. Nella pulizia dei suoi gesti e del suo corpo.

(Il sole diventa un indice puntato e una colata di albicocca. Un merlo fa cartocci di foglie)

L’Attore.
L’Attore è ogni personaggio e ogni personaggio gli lascia qualcosa negli occhi, nella postura delle mani, nell’inarcatura della schiena.
E’ lo studente, soprattutto, personaggio senza certezze e senza nido, in viaggio verso Izu, fra piccoli passi e lunghe soste del cuore: colombo dal petto bianco, in cerca di sé e degli altri.
In compagnia casuale di artisti girovaghi, fra invisibili alloggi di fortuna, spettacoli a richiesta, ricordi di un lutto bambino, risvegli umidi e marmitte di pollo e verdure.
Fissato nel candore di lini e di anima.
Preso nello stupore di un disgelo interiore.
Angelo d’Oriente, nella leggerezza e nell’estraneità della non appartenenza.
Ritarda, allunga il viaggio per costeggiare, lungo una manciata di ore, la vita degli altri, anche se si tratta di una vita all’improvviso.
E diventa cera, bianca e fondente, nel suo non fronteggiare l’irruzione dell’amore, in forma d’una figurina di carta, leggera e tutta rivelata nei suoi quattordici anni: la danzatrice adolescente, col suo contorno di familiari un po’ tristi, un po’ malati, un po’ severi.
Sogguardata dallo studente con il pudore e la malinconia della rinuncia.

(Il sole si ritira, in fondo; lascia come pegno un grigiolilla: aria a zig zag fra gli alberi, cornacchia lamentosa, in alto. Inutile motorino a grattare l’asfalto. Rami in movimento protettivo)

L’Attore si scioglie nel disfarsi lento della non azione: si modella come sentimento.
Sorpresa, gioia sottile e serpentina, indugio, speranza, incantamento, paura, e poi… distacco.

Il semicerchio dei presenti è ormai una mezza luna porosa e gonfia.
Struggimento lieve del dover tornare alle cose come cose, al tempo d’orologio, alla sedia che non è più zattera.
Accoglie un canto di nenia e di dolore come fosse il suo.

(La sera stringe gli alberi e chiede scusa)

Francois Kahn, discepolo di Grotovski, ha tradotto in monologo Viaggio a Izu di Kawabata Yasunari e l’ha portato fra gli alberi di Giulio, nella bassa modenese.

Mieli 2

01 giovedì Giu 2006

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 75 commenti

Che il lavoro di mio padre lievitasse in spazi impropri, inghiottisse la casa, invadesse i pensieri, il tempo e le energie era una certezza.
Il campanello d’ingresso suonava a ore strane e onde larghe d’umanità finivano in salotto: presenze corpose o sottiline, di durata alterna.
A metà fra ‘l prete e ‘l maresciallo, con l’anima del giusto di campagna, mio padre assorbiva ogni giorno proteste e preghiere: rotolavano da noi, crespe di vergogna, nella stanza porto di mare che dava sulla strada.
Cose della vita. Insegnavano a non chiedere e a non stupire.

La Rosa miamamma ne raccoglieva un’involontaria schiuma, fra una tazza di caffè o un vermouthino, ché davvero non si poteva lasciar nessuno lì, con il magone, sul vimini intrecciato di  poltrone scomode.
E lei, allora, avanti e indietro fra cucina e luogo dell’attesa, a tirar su lamenti e a offrire sedie, anche alla vedova, che rifiutava e rifiutava, per svelare alla fine: meglio restare in piedi, ché il suo compagno proprio col culo sulla stufa accesa l’aveva messa a sedere. Perché tacesse. Ecco. Se il sindaco poteva far qualcosa…
Camminavano storie di varia umanità.
Qualcuno chiedeva per le medicine, quelle che venivano da via: un prestito piccolino o una parola buona al farmacista.
E per scrivere una lettera al prefetto. Si poteva? E al figlio che stava a Milano? E alla Montecatini per avere il posto? Le classi di scuola così basse…
Poi c’erano le centocinquanta giornate, in campagna: non venivano, non venivano mai, e sul libretto in bottega non si segnava più. Non c’era un po’ d’erba da tagliare ai fossi?
Vero che in Russia gli occhiali li tiravan gratis, a tutti, e anche la dentiera? Se si era rossi dentro, li davano lo stesso? Telefonando…

La Rosa miamamma ascoltava, ascoltava. Come confessare al chierichetto, far le prove in brutta. Con la Rosa non c’era la paura: un poco sorrideva, un poco consolava. Anche correggeva.
Dopo, dicevano, se tutto andava bene, per il sindaco c’erano le uova e la gallina, da portare fino a casa… Allora, la Rosa, tutta accesa, scongiurava: per carità, guai, neanche dirlo, perché a Gigi suomarito neppure un “grazie, per adesso” si poteva regalare : “per adesso” era già un’offesa e lo sapevan tutti del volo del salame sulla testa dell’agrario, latore d’indesiderata regalia.

Poi venne il vecchio.
Il vecchio fu un’altra cosa.
Muto, grigio, col tabarro pencolante, quello dell’ospizio.
Seduto in punta di sedia. A mezzogiorno.
Guardava solo le sue scarpe e pareva avere freddo.
Il salotto non era riscaldato: non eran più tempi di Warm Morning sempre accesa, coi suoi carboni diavoli. Sembrava tiepido solo a venir da fuori, ma a starci, a starci il frigido del pavimento saliva per le gambe.
“Venga qui in cucina che c’è caldo”- la Rosa non sapeva lasciare al freddo neanche gli anatrini, figuriamoci un vecchio che tremava.
“Ma lo sa che ha proprio brutta cera? Ah, è il mal di testa…”-il vecchio si toccava la fronte e stava zitto. “Lo vuole un bel Mindol? Dopo poi sta bene…”
Il vecchio disse sì e lo bevve con una tazza di brodo.
Poi rovesciò gli occhi.
Quieto.
Fermo.
Il bambino canterellava “la pancia non c’è più, la pancia non c’è più” come aveva sentito a Carosello, senza accorgersi di niente. La Rosa miamamma tutta un tremore: sulla guida a cercare l’ospedale. A dire: il brodo, oh dio, il Mindol.
Io a guardare quella faccia grigia.
A capire che il dolore ti prende all’improvviso, in un vecchio senza nome: è nausea e saliva ferma in bocca.

Si andò con mio padre all’ospedale, a piedi.
Dietro l’ambulanza.
Non era morto, il vecchio, ma non parlò mai più.
Non si seppe che storia aveva in testa, che preghiera o bestemmia lo aveva portato a casa nostra, nella sua vita sola.
Durò ancora, tanto tempo. Lo si andava a salutare coi biscotti, al ricovero dell’ospedale vecchio.
Prendeva con la sua mano d’osso la mano della Rosa miamamma.
E stava lì.

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