Non so come dire  quando arriva un regalo inaspettato, specie in un pomeriggio pigrocaldo, sulla coda dell’estate.
In casa grattano gli infissi: una finestra, una porta, poi chissà, se resterà il tempo buono.
C’è polvere e rumore.
E io, poi, non so fare.
Allora al cine in bici, che qui c’è il festivàl.

Il primo film scende giù freschetto: mi ripasso un po’ Torino, gli amici che ci stanno. Ciò non è male.
Ma poi, ma poi… portato addirittura da lontano, spazio e tempo in combutta, Un ettaro di cielo.

Io neanche sapevo che esistesse, questo film, nato dal delta per mano di Guerra, Petri, Flaiano e Casadio, nel ’58, ma non dal delta di Visconti, quello col dolore dentro, la fame e la malaria: case di giunco tenute insieme con carta di giornale e colla…
Questa è un’operina che sa di tagliatelle fatte in casa, farina sbattuta con le uova, nella terrina rigata di verde, di pesce fritto all’aria, così buono.
Un Mastroianni giovane e la Schiaffino. La bassa che dà al mare, lì a Volano, i casoni, l’osteria e la fiera, da trombettina di Govoni, con la festa dentro, la donna cannone e i ciarlatani che vendono il sale (fa bene ai piedi e salva dalla atomica…).
Poi, i vecchi e i capanni, soprattutto: comunità senile, con sogni in gerarchia, che vive fra canne e ponti storti.
Uno raccoglie gli ossi di seppia e li carica in barcone, un vagabondo anarchico caccia le volpi, munito di un ombrello, tanto povero da avere solo letti in condominio, un altro fa barba e capelli sotto il sole, al modico prezzo di 1 anguilla o 3 anguille, a seconda del servizio.

Tutti lì ad aspettare il Severino, che arriva col furgone: professione rappresentante e uomo dei miracoli, giovane e spaccone, sguardo a trapano e mano che sa le strade delle donne.
Bugiardo e sognatore quel che basta per far ronzar di storie le teste dei vecchi.
Racconta di un mondo che non c’è: una città dove si vende il cielo.
Un po’ per via del sonno eterno, un po’ per speculazione: ché c’è traffico in cielo, non si creda, una cometa oggi, una stella cadente poi, un razzo che ti passa sotto i piedi. C’è pure da affittare, da far pagare pedaggio…

Scherza il Severino, con bonomia incosciente, ma i vecchi non lo sanno.
Se ne comprano un ettaro, di cielo, tremila lire e rotti nelle tasche di Severino, che crede sia un gioco innocente, da far camminare un po’, per allegria.
Ma han fretta di cielo, gli amici dei capanni: è meglio morire subito e far la vita dei signori prima che si può, poggiati alle nuvole, a riscuotere tasse di dogana.
Sulla barca, pietre al collo, cercano il punto per buttarsi giù: ma l’acqua arriva alle ginocchia e in compenso ci son tante anguille lì, ma tante tante tante. Fritte sono una delizia.
Mangiano e bevono i vecchiotti: s’addormentano sulla barca che piano piano scende a picco, mentre Severino, scoperta per caso l’intenzione, rema per tutto il delta coi custodi, con la vergogna d’aver troppo giocato con i cuori.

Finisce bene, come nelle fiabe: si fa pace, si trova l’amore, si torna a vivere, nella pancia del Po.

Resta la malinconia sottile di quel sorriso che non è ironia: l’intenerirsi all’ingenuità di certe creature senza male, che si contentano di sogni di seconda mano, prestati da un rappresentante con furgone…

(Però, …un ettaro di cielo non sarebbe male.
Io ci farei un allevamento di aquiloni.
E voi, amici cari?)