• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

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Ri-

25 mercoledì Apr 2007

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 33 commenti

Una volta ogni tanto è possibile vero? Postare un vecchio post, intendo. Perché qui sono arrivati i piumini, con tre settimane d’anticipo, e non si può far finta di niente. Non si può. Davvero.

Piumini

Le tremule foglie dei pioppi/ trascorre una gioia leggera.
Conosco questa gioia.
In giorni d’assedio.
Non abito lontano da una barriera di pioppi cipressini, bordo di un giardino per bambini e di un argine d’incipiente calvizie.
Qui ho imparato che la gioia leggera dei pioppi ha un solo nome: piumini.

Levatrice il vento, mezzo di trasporto l’aria tiepida, i piumini raccontano di un altrove che sa di alto, di caduta siderale da un silenzio di cotone.
Nessuno li ha visti nascere.

Planati a sparpaglio, diventano un’attonita peluria fra i tentativi rosa della tamerice.
Lungo la strada s’intalpano in interstizi terra di nessuno: l’orlo infossato fra l’asfalto e il marciapiede.
Ho ben da rincorrerli in casa: rotolano galleggiano rotolano galleggiano e vanno a trovare nicchie, cavità irraggiungibili sotto i mobili.

Per questo mi son fatta un’idea.
Chi può dire che la loro traiettoria non abbia una direzione…
I piumini forse seguono una logica amorosa: vanno a colmare i vuoti d’esistenza delle cose.
Volatili, delicate presenze.
Risatine di pioppo.

Il Gi

16 lunedì Apr 2007

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 45 commenti

Era un giovanottino magro.
Di quelli che, se li vedi, pensi alle zampe fil di ferro dei mericanin: hanno l’agitazione addosso e sono le anime inquiete del pollaio. Tutto nervo  sotto le penne, carne poca e resistente.
Lo chiamavano Gi, detto due volte in fretta, per fare prima, e lui scattava per un niente,  svelto di testa e di parola.
Pareva un uomo e non lo era ancora: lavorava da grande e teneva per fantasia dei castelli di conti complicati.
Correva con la bicicletta lungo le cavedagne e intanto contava i pioppi,  che erano le ciglia del canale, li moltiplicava per le pedalate, da qui a là, poi divideva per i nidi della siepe. E se non bastava, calcolava l’area di un tetto, tegole base per altezza (così faceva pure la sua bella sottrazione).
Non c’era tempo per scrivere: chi portava il latte al caseificio stupiva che lui, ragazzo, i conti dei litri a settimana li mandasse a memoria senza un foglio.
Quasi i contadini erano  contenti di trovarli uguali, identici giurati a quelli che con croci ed aste gessavano sul muro della stalla.
Quasi  un piacere anche per loro, che  pure avrebbero annacquato per allungare di un litro.
Gli dicevano bravo e va’, ché la tua strada non finisce qui.

In effetti c’era da inventar qualcosa: le spese c’erano e il padre mica a casa, per via di quella tessera schifata, in spregio al podestà.
Si poteva vendere il siero, ecco, quello scremato.
Si doveva girare in bicicletta e far finta di essere bartali, al mattino, per cercare un caseificio che potesse diventar cliente.
Si parlava tanto della corte grossa, nel paese col leone in stemma: 1000 ettari e mille campi, si diceva, con un maiale tirato su a tosello, 320 chili di gran bestia, e l’asta dei foraggi con cento e passa compratori, che al colpo con la frusta del padrone facevano silenzio e nell’aria sentivi solo i bombici  gravare sulle schiene dei cavalli… Numeri grandi, grandi grandi.

Il casaro che poteva dire sì non c’era.
Bisognava aspettarlo, con quel caldo.
La figlia gli portò acqua e limone: restarono lì, a contare le formiche, vicino alla stallata dei puledri.
Sei mica di qui, gli disse la ragazza, non ti ho visto mai sul sagrato, quando c’è il Tano con la fisarmonica e si balla.

Tornare a casa col siero venduto per un anno e negli occhi il sorriso della Lina non era poca cosa. Era il caso d’andarci, a quel sagrato, perché la fisarmonica scioglie le gambe e i fianchi, e la Lina nella voce aveva pur la cantilena da santina, ma le gambe, signur, le gambe non erano secche no, e i fianchi, i fianchi, signur, s’intendevano gloriosi…

Il Tano aveva del signore, anche se suonava in una cesta grande da fornaio: un podio riservato e casereccio. La faceva ridere, la sua fisarmonica soberano, coi tasti di madreperla crème, e poi la faceva piangere. E il sagrato, in un’onda di guizzi e di sospiri, diventava romagna ed argentina.
I ragazzi erano tanti, con sguardi di cova maliziosa per le ragazze a crocchi e a filarini, nei vestiti leggeri di cotone, fresche di bluse ricamate e colletti col nodino.
La Lina era rosa e bella, con la gala di pizzo alla sottana e le ciliegie rosse ricamate sulle tasche: il tremore della risata in gola. E sorrideva, molto sorrideva, ma il Gi era solo un forestiero. Più di tanto non si poteva dire, sotto il tiro imbronciato di sguardi maschi e nostrani: ventitrè, per essere precisi.
Allora il Gi tornò col gruppo degli amici suoi, ogni settimana di quel giugno, per non essere da solo. Rilavati a sera, arrivavano con la riga dei capelli ben tirata, il pettine nascosto nel taschino, per l’ultimo tocco prima della curva e dell’arrivo potente in bicicletta. Per poi sparpagliarsi, battuta pronta e sguardo guastatore.

Il giovanottino magro subito al fianco della Lina, che, benedetta, era sempre lì a fargli una gran cera. Senza mai parlare, però: solo a canticchiargli
Babbo non vuole, mamma nemmeno,
come faremo a fare all’amor.
Babbo non vuole, mamma nemmeno,
come faremo a fare all’amor.

E lui, per non insospettire nessuno, stonava un
Bambina innamorata,
stanotte t’ho sognata
sul cuore addormentata.
e sorridevi tu.

Per sospirare, sospiravano assai.
E si guardavano negli occhi, anche quella sera, quando, al momento del saluto, le biciclette dei foresti erano già in gruppo, pronte alla partenza.
La musica del Tano stette zitta e si aprirono le acque.
Cateratte d’acqua fredda, secchiate improvvise come flagelli: cattive e giustiziere, al grido di “a ca’  a ca’, a ca’ vostra …”, un sottofondo di risate maschie e di stupore femmina. La Lina ferma come un uovo sodo.

Fu dolore, d’orgoglio e di eleganza.
Gli amici partirono in picchiata.
Il Gi, il Gi no.
Solo e bagnato, fermo nel bel mezzo del sagrato.
Con calma indolenza si pettinò il ciuffo bene all’indietro.
Poi posò una mano al petto, sotto gli occhi di tutti, esterrefatti.
Tastò, premendo appena, aprì il bottone di mezzo, ed estrasse una sigaretta asciutta, una di tre Serraglio prese a credito.
Tre, disse, salutando con le dita della mano a piccolo ventaglio, e gnanca ‘na moja. Neanche una bagnata.
L’accese, tirò una boccata come si deve e partì impettito: una scia di piccole gocce sulla strada bianca.
Per un po’, dietro la curva si sentì cantare a squarciagola

Chi va in cerca d’amore
ritrova una fata divina.
È signora del bene e del male
e si chiama Fortuna.

Non, Vita, perché…

11 mercoledì Apr 2007

Posted by colfavoredellenebbie in accompagnamenti

≈ 34 commenti

(accompagnamento da spiraglio di Camillo Sbarbaro)

Mi è venuta voglia, stamattina, di accompagnare Sbarbaro e di farlo  attraverso lo spiraglio di una poesia.
Complice la lettera di un antico allievo-amico, è tornata, improvvisa e avvolgente, la fascinazione di un testo dimenticato: ‘Non, Vita, perchè tu sei nella notte…’

Potrei dire che mi è caro questo componimento perché amo le rose: tutte, da quelle di Campana a quelle di Borges. (Ad esse appendo e affido l’intempestività dei miei tempi)
Potrei dire che mi è caro perché coniuga il desiderio con la tensione all’infinito: mai disatteso, mai compiuto. O per la coscienza dolorosa del limite e del residuo, intravisti in una manciata di mosche o nel riflesso di uno specchio. O, ancora per la risonanza di quella fiammata-vita, bagliore isolato nel buio.

Eppure io amo questa poesia soprattutto perché è un canto d’amore.
Ritardato e rovesciato: chiamato ad attraversare, come in una via crucis, i ponti del negativo, le stazioni della sofferenza, quasi in sospensione sulla corda tesa dell’ iperbato, che confina/confida, solo all’ultimo verso, la sua dichiarazione.
E allora pare quasi che tutto il componimento abbia trattenuto il respiro, nell’attesa di una rivelazione, di una decisione di rotta, di una fioritura finale:  quel ‘t’amo’, miracolo tardivo che esce dall’ ‘amaro’, dal mallo della vita stessa.

Così viene da pensare come  in questo viaggio costantemente fuori tempo rispetto alla meta, in anticipo o in ritardo rispetto ai sogni, in questa congenita aritmia dell’esistenza, esperta nel compromettere coincidenze e nell’alimentare estraneità, si possa srotolare senza animosità il filo delle prove e delle emergenze, e brucare, con la lentezza mansueta della pecora, ‘la felicità grande di piangere’ e ‘la tristezza eterna dell’Amore’.
Nelle pieghe di ogni ossimoro.

Non, Vita, perchè tu sei nella notte

Non, Vita, perchè tu sei nella notte
la rapida fiammata, e non per questi
aspetti della terra e il cielo in cui
la mia tristezza orribile si placa:
ma, Vita, per le tue rose le quali
o non sono sbocciate ancora o già
disfannosi, pel tuo Desiderio
che lascia come al bimbo della favola
nella man ratta solo delle mosche,
per l’odio che portiamo ognuno al noi
del giorno prima, per l’indifferenza
di tutto ai nostri sogni più divini,
per non potere vivere che l’attimo
al modo della pecora che bruca
pel mondo questo o quello cespo d’erba
e ad esso s’interessa unicamente,
pel rimorso che sta in fondo ad ogni
vita, d’averla inutilmente spesa,
come la feccia in fondo del bicchiere,
per la felicità grande di piangere,
per la tristezza eterna dell’Amore,
per non sapere e l’infinito buio…
per tutto questo amaro t’amo, Vita.

(Camillo Sbarbaro)

Altri accompagnamenti (Sandro Penna)

02 lunedì Apr 2007

Posted by colfavoredellenebbie in accompagnamenti

≈ 47 commenti

Quando voglio ricordare quanto possa/sappia essere atemporale la poesia, certa poesia, riprendo in mano Sandro Penna, perché accostarsi alla sua opera vuol dire superare la tentazione di coglierne un’evoluzione, di scandirne una cronologia di modalità espressive o di variazioni tematiche nel tempo.

Penna è tutto lì, subito, nel primo come nell’ultimo dei suoi componimenti, con un nitore che abbaglia.

Un nitore che ospita in purezza il contrappunto angelico e sensuale dei suoi amori e il gioco d’alternanza fra brevi euforie e tristezze sotterranee, fra uno stato di fanciullezza, che sollecita i sensi, e uno stato di maturità malinconica, che diventa ombra.
In compresenza.
«Bizzarra dolcezza », dice Raboni, e «infinito e squisito assaporamento di un veleno ingerito prima».

La vita stessa pare essere accolta (o captata) sulla scorta di una cheta follia e di una pigra inettitudine.
Con naturale golosità, ma mai aggredita: solo rasentata ai bordi.
Perché la vita in sé non è arginabile.
E non chiede di fare, e neppure di essere.
Chiede di  trasalire assieme al suo respiro.

Il segreto per affrontarla sta nel vario cuore che è, insieme, veicolo del sogno (lo sogno ancora un poco), e mezzo per un inabissarsi nelle cose (lenta l’anima affonda) o per liberare uno slancio vitale inaspettato.
Il vario cuore, ovvero la disponibilità al sentire, è metafora esistenziale della poesia di Penna, che trova la sua prosecuzione nel motivo della pelle, ovvero della epidermicità delle sensazioni.
Cuore e pelle imprimono alla poesia un duplice movimento: un aprirsi al mondo e alle cose, ai caldi viali, al mare tutto azzurro, tutto calmo, all’attesa (Chi ha sete nel sole / lasci la bicicletta / e aspetti la luna), e un chiudersi, morbido e protettivo in una carezza, un nascondersi fra le pieghe del mondo: Io vivere vorrei addormentato / entro il dolce rumore della vita.
In questo ambivalente bisogno di essere pelle da stendere alle sensazioni e di essere cuore dentro il cuore della vita sta la dichiarazione di una tenerissima, diretta permeabilità sentimentale: ciò che passa per gli occhi passa per l’anima.
Da questa confidenza fra esterno ed interno fiorisce il motivo dell’apparizione, involucro talvolta solare, talvolta inquietante entro il quale prendono forma  la figura gentile del fanciullo-angelo e quella ambigua del ragazzaccio-demonio.
La parola che, con grazia classica, ha raggiunto la sua trasparenza, è felice di esserne il veicolo e restituisce la sua gioia, in poesie come questa:

Notte – sogno di sparse
finestre illuminate.
Sentire la chiara voce
dal mare. Da un amato
libro veder parole
sparire… – Oh stelle in corsa
l’amore della vita!

(Sandro Penna)

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