Sarà che spesso ci svegliava il sole e, se questo non bastava, era la voce che arrivava grossa, col tono un po’ da chiesa contadina. La voce che diceva ‘E’ il primo maggio, la festa dei lavoratori’.

Sarà che ci si alzava svelti, per vedere cos’altro succedeva, dietro la Topolino verde, prestata dall’Ivano, per annunciare che il comizio c’era.

Sarà che si restava presi, poi, dal caffellatte, da mangiare in fretta con il pane, così buono spezzato sul tagliere, dai colpi secchi della Dina mianonna.

Sarà che la festa era già tutta nell’odore: la gallina gonfia a sobbollire, la pancia piena di tritura. Certi ovini caldi (quanta ricchezza implosa) già pronti nel piattino per la mano più veloce, col sale per seconda pelle. E le scarpe, le scarpe col nero ad asciugare sui gradini, prima che il nonno le tirasse a straccio: rito d’antica, familiare tradizione, che voleva le donne risparmiate e gli uomini fieri di tanta gentilezza brillantata.

Sarà che gli uomini di casa legavano la cravatta rossa e ci tenevano per mano, fino al carretto portato nella piazza: bandiere e  biciclette poggiate agli archi del palazzo, fra parole che non capivo bene, tutte stese davanti al municipio, sedute al caffè coi tavolini, poi alte alte sul vociare da mercato.
Il comizio finiva: allora mio padre  metteva me (e la mia timidezza di vergogna) lassù, in alto, perché ci fosse un bacio all’oratore.

Sarà che si tornava con un nastrino al petto.
Sarà che mianonna, appena a casa, requisiva i garofani residui per cercarne i getti e piantarli nel giardino.
Sarà che i getti si chiamavano ‘cursin’, di esse dolce: piccoli cuori, come tutto ciò che la Dina maneggiava,… ma è proprio il cuore che mi manca, oggi, il cuore dei gesti e delle cose.
Quello che si trovava anche su un carretto, quando si era semplici e bambini.