• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

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26 martedì Giu 2007

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 52 commenti

Il padre era già di sotto, in corte, ad aspettare.
Bicicletta lustra, catena ben oliata dentro il carter.
Il cambio di vestiti legato al portapacchi.
Ché una promessa è una promessa.
Sempre.
E il ragazzo se n’era uscito bene dalla scuola tecnica inferiore.

Quattr’anni quattro, e tutti in bicicletta, per prender le lezioni.
A mangiare strada e freddo, sull’argine, che era più sicuro, ma con l’argilla molle a far manina viscia sui cerchi delle ruote. Ad impastarle, eccome.
E certe nebbie, poi: intasavano i polmoni, neanche fossero fumo di toscano.
Se il tempo era brutto brutto, lo compagnava là, alla Ca’ triste, dove l’argine è una biscia d’acqua e la mota porta fino a riva.
Quasi gli pareva chieder troppo a quel figliolino magro e lungo, le spalle strette, la bocca dolce.
‘N uslin dal fred, a beccare il ghiaccio, muto e testone.
Il padre se lo guardava, nel mattino, sparire fra i pioppi a parete, lungo i lati: quasi lo avrebbe spinto con un soffio.
Ma non c’era verso: a scuola si doveva pure andare. Per imparar le case. Ché, se uno fa le case, fa anche i caseifici, ecco.

– Dai che se finisci, poi si va fino a Gorizia. Noi due in bicicletta. A vedere i posti della guerra. Con un vestito nuovo e la Bianchi di tuo fratello Gi.

La scuola era finita.
Coi voti giusti per andare.
I vestiti pure. Uno anche per Gi, ch’era già grande e cercava le ragazze, ora: la Dina non faceva differenze. Un fresco di lana pagato con il burro e la stoffa portata da Rienzo. Quel bel nocciola che sta bene agli occhi e tira fin l’autunno.

Partirono nel fresco del mattino, di un giugno che prometteva sole. Presto, per non stare a salutare e sentire consegne e lamenti di chioccia alle spalle.
Il padre già avanti, il ragazzo arrancava dietro, nel vestito da uomo appena messo.
Fischiava, il padre. Un “va’ pensiero” chiaro, che liberava l’anima e il naso.
Per l’argine di principio estate: coi ciuffi di erba cavallina e salcerella rosa, e le lenzuola  stese, nei banchi di golena.
Fischiava e poi fischiava, il padre.
Ma il figlio non coglieva.
Dava la voce, il padre.
Così accogliente l’aria, così largo il Po, così bello vedere fin lontano…
Dava la voce e poi dava la voce, il padre.
Ma il figlio stava zitto.
Il padre allora si fermò al Ponte dei Tedeschi e si girò: se lo vide pallido e sudato.
– Vien giù, che ti guardo bene. Ma fai tanta fatica?
Il ragazzo pareva sotto la grinfia di un cappone, col vestito che gli cadeva addosso, mani sparite sotto  le maniche, spalle a spiovente e pantaloni a fisarmonica a coprir le scarpe.
– Sì, disse piano.
Il padre rise.

Addosso, a cascare come pioggia, aveva il vestito del fratello grande.

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A specchio

18 lunedì Giu 2007

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 35 commenti

Qui da noi ci son giornate che si specchiano in altre, complice un’aria tirata a lucido dal vento. Entri nelle ore del mattino e ritrovi altri mattini e altri odori e altri racconti. Uno dei primi, ad esempio. Non sarà grave riproporlo, spero…

Le pareti color di crema

Erano i peperoni, i pomodori e le cipolle, insieme all’aceto e allo zucchero, a sprigionare un’armonia così intensa che avresti volentieri intinto pane tenero nell’aria. La salsa accompagnava i pasti e si alternava alla fragranza dolce del finocchio tagliato sottile e ben assortito al rosa del tonno.
“Quando mi sposo, a nozze io voglio solo finocchio e tonno”.
Buono, lasciava nel piatto una memoria generosa d’olio, insaporito di fresco fresco, da assorbire con certe rosette di crosta gentile, senza fatica.
A tavola si rideva. “Gli agnolini mangerai”– si scherzava e intanto la Dina mianonna, con geometrica precisione, divideva la carne del pollo, secondo regole gerarchiche, prima gli uomini, poi i bambini e le donne.

Era importante il cibo a casa mia.
Mentre si mangiava, si favoleggiava dei tempi in cui la Dina teneva la trattoria nel paese piccolo.
Venivano i viaggiatori che apposta allungavano la strada pur di godere della sua pasta ben condita e della sua cacciatora, e quelli senza un soldo, che mangiavano e facevano allungare il conto, e qualche volta si portavano un amico. Ma una volta era venuta, per intera, anche l’orchestra del maestro Angelini, che una canzone aveva dedicato alla grazia di tanta cucina.

I ricordi scorrevano sulla tavola e il cibo prendeva altri sapori: diventava il selvatico del fagiano abbattuto con la fionda e si faceva morbido come il burro del vecchio caseificio di casa, che, rovesciato dal secchio, restava madido di piccole gocce di umore. Il burro che la nonna aveva imparato a far da sola, durante il confino in Francia del suo uomo.
Il cibo diventava il cibo di un’altra casa, di altri bambini, di altri racconti, che solo così tornavano in circolo piano piano.
Come per un moto indolente, le storie chiamavano altre storie, che non chiedevano il tepore del camino, ma sbucavano così, un po’ sudate, sulla tavola, col piacere di un uditorio senza fretta.
Quando il giro della memoria aveva già colmato la testa dei piccoli di uno sciame di nomi senza volto, allora miononno e mianonna finivano col parlare l’uno per l’altra, stretti nel loro cerchio di companatico. “Era brava la Dina. Sempre vista a lavorare, da subito. Però quel giorno, con la veste a quadrettini, è pur venuta nella camera buia sul dietro…”
Infuocava mianonna e zittiva il marito con burbere, agrodolci occhiate.

I cibi, in casa mia, erano flauti di ricordi. Invadevano persino i colori, che ne prendevano le sfumature.
Mentre le donne di casa assaporavano la morbidezza di certe stoffe che le clienti di miazia portavano in rotoli o pezze, la Dina sentenziava col suo vocabolario strano.
“Bello questo color crème e questo nocciola, più bello del burro della camicetta della Silvana. No, no, ‘sto giallo è troppo zabaione. Ma che sfacciato ‘sto sangue di bue, va bene solo per le bistecche”…….

I colori si portavano dietro l’ombra, il fantasma dei cibi e il mondo, stoffa o muro, capello o fiore si caricava di una pastosità di fiaba, di pareti di marzapane e di tetti di biscotto.
Così le cose finivano per non essere cose: rivestite di panna, burro o nocciola, di zabaione o di carta da zucchero, si facevano dolci e belle, quinte per giochi di fantasia, in un mondo che si poteva annusare e gustare.

Quando vennero i pittori perla cucina e le donne decisero il color di crema , misi un dito dentro il secchio dove il colore schiumava di latte e, mosso da un bastone, diceva consistenze impensate. Assaggiai, ma non c’era sapore di vaniglia, solo un salato freddo. E un odore di pulito di calce, che non compensava la bocca amara.

Intorno a Caproni

07 giovedì Giu 2007

Posted by colfavoredellenebbie in accompagnamenti

≈ 47 commenti

(accompagnamento di una metafora o due…)

Qui da noi accadono transiti vari.
A volte ci si presta un po’ di zucchero e farina, a volte una sciarpa di seta o la ricetta dell’erba luigia. Altre ancora pane e parole.

Così una delle mie amiche mi telefona e mi chiede delle metafore.
Per sua figlia maturanda e tesinanda. Metafore fresche, di giornata. Non troppo usate. Meglio se di poeta.

Ecco, uno dei principi, cui la mia vita mai è venuta meno, mi ricorda amabilmente che una metafora non si nega a nessuno.

E allora penso a Caproni lì, dietro l’angolo, con le parole giuste: “Dopo la pioggia la terra / è un frutto appena sbucciato”; “Gli uccelli sono sempre i primi / pensieri del mondo…”; “Sei donna di marine, donna che apre riviere”… “e sono vele / al vento, sono bandiere / spiegate a bordo l’ampie / vesti tue così chiare”.

Penso a Caproni, giusto per riappropriarmi di un piacere e ricordare quanto respiro viva nella sua poesia, quanto spazio aprano le sue metafore.
Non sono folgorazioni: sono percorsi di immagini, che trovano il terreno per allignare in una sintassi quasi narrativa.
Viaggiano, fra archi di enjambements, in un verso capace di smembrarsi, di farsi pianto, quando approda ai temi della solitudine, dell’impotenza dell’uomo nei confronti del nulla, della vita che cessa e svanisce nella nebbia dell’esperienza privata.
Senza desertificarsi, però.
Potere figurativo delle parole: anche nel vuoto annodano esili ponti fra cose e tempi divaricati; sanno ‘ripensare’ per immagini la realtà. Reinventarla.

Come in Triste Riva.

Sul verderame rugoso
del mare, la procellaria
esclama con brevi grida
la burrasca lontana.

Io a riva, anzi sul labbro
renoso ove schiuma
salina bava, solo
contemplo e comprendo intanto
il gusto della tua saliva.

Due periodi in sé conclusi, separati non soltanto dalla pausa ritmica del punto, ma dallo spazio bianco, aperto come una sospensione. O come un invito alla lentezza, non interrotta  neppure da un verbo di movimento…
Ecco, dentro i giochi delle assonanze  e delle allitterazioni, prende vita, ad onde larghe, una rete di metafore. Preparano una metamorfosi, per progressivi passaggi, sul filo di una umanizzazione degli elementi della natura: la ‘pelle’ orizzontale e rugosa del mare si accende della rapida apparizione di una procellaria che esclama. L’‘io’ ascolta e guarda: la riva si fa labbro, la schiuma si fa bava, dunque saliva di donna.
Il contemplare è sentire e comprendere, in una riappropriazione sincronica: il mare torna alla sua accezione di acqua e di rena, biblici elementi della donna.
Il mare si fa donna, direbbe Saba.
A sottolineare l’affinità mai interrotta fra la natura e i fantasmi dell’uomo, fra le parvenze e le proiezioni mentali, fra i sogni e i ricordi.

La metafora non è più soltanto cifra espressiva, ma strumento di conoscenza, che, pur partendo dal piano dell’esistente, lo intacca, lo traspone, lo deforma.
Lo fa germinare, per addolcire, con un bacio che viene da un altrove, la solitudine.

Piatti e minimi sistemi

02 sabato Giu 2007

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 37 commenti

(divagazioni su stanchezza e affini)

Sto lavando i piatti, piano.
Col destino appollaiato sulla spalla.
Lo sento.
Vecchio condor da secchiaio.
Come l’orologio che canta con gli uccelli, alle mie spalle.
Conosce la voce delle ore che verranno.
Chissà se ride o piange.
Sa già tutto quello che non so.
Io so soltanto che son giorni a  svolte già decise, a pieghe precise come solchi.
Sensazione di un incombere del tempo: più che un’attesa, un prolasso temporale.
Un non accogliere l’idea che un guizzo libertino traversi le cose e le seduca un po’.
Le cose van per conto loro.

E allora…

L’abitudine, da brava supplente dei pensieri, catena i gesti.
Il formaggio, già orgoglio della pasta, ora insiste sul piatto.
Non mi asseconda. Vuole rimanere.
Lode, con plauso, alla persistenza del gommoso.
Occorrerebbe sfregare con piglio e decisione.
O lasciare all’acqua la forza della permanenza. Qualcosa smuoverà, potendo.
Vada per la seconda opzione.
Acqua sulle cose, che ammolli e porti via.
Felicità del condor, stupito della mia cedevolezza.

Ma intanto giù dal lavandino vanno scrutini, prospetti, livelli con certificati, risposte un po’ sgarbate, “un non sufficiente io non lo tolgo, no”, un vento furibondo scoppiato all’improvviso, “il registro va riconsegnato”, schiuma, tanta schiuma.

Collezioni di sabbia.

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