(accompagnamento di una metafora o due…)

Qui da noi accadono transiti vari.
A volte ci si presta un po’ di zucchero e farina, a volte una sciarpa di seta o la ricetta dell’erba luigia. Altre ancora pane e parole.

Così una delle mie amiche mi telefona e mi chiede delle metafore.
Per sua figlia maturanda e tesinanda. Metafore fresche, di giornata. Non troppo usate. Meglio se di poeta.

Ecco, uno dei principi, cui la mia vita mai è venuta meno, mi ricorda amabilmente che una metafora non si nega a nessuno.

E allora penso a Caproni lì, dietro l’angolo, con le parole giuste: “Dopo la pioggia la terra / è un frutto appena sbucciato”; “Gli uccelli sono sempre i primi / pensieri del mondo…”; “Sei donna di marine, donna che apre riviere”… “e sono vele / al vento, sono bandiere / spiegate a bordo l’ampie / vesti tue così chiare”.

Penso a Caproni, giusto per riappropriarmi di un piacere e ricordare quanto respiro viva nella sua poesia, quanto spazio aprano le sue metafore.
Non sono folgorazioni: sono percorsi di immagini, che trovano il terreno per allignare in una sintassi quasi narrativa.
Viaggiano, fra archi di enjambements, in un verso capace di smembrarsi, di farsi pianto, quando approda ai temi della solitudine, dell’impotenza dell’uomo nei confronti del nulla, della vita che cessa e svanisce nella nebbia dell’esperienza privata.
Senza desertificarsi, però.
Potere figurativo delle parole: anche nel vuoto annodano esili ponti fra cose e tempi divaricati; sanno ‘ripensare’ per immagini la realtà. Reinventarla.

Come in Triste Riva.

Sul verderame rugoso
del mare, la procellaria
esclama con brevi grida
la burrasca lontana.

Io a riva, anzi sul labbro
renoso ove schiuma
salina bava, solo
contemplo e comprendo intanto
il gusto della tua saliva.

Due periodi in sé conclusi, separati non soltanto dalla pausa ritmica del punto, ma dallo spazio bianco, aperto come una sospensione. O come un invito alla lentezza, non interrotta  neppure da un verbo di movimento…
Ecco, dentro i giochi delle assonanze  e delle allitterazioni, prende vita, ad onde larghe, una rete di metafore. Preparano una metamorfosi, per progressivi passaggi, sul filo di una umanizzazione degli elementi della natura: la ‘pelle’ orizzontale e rugosa del mare si accende della rapida apparizione di una procellaria che esclama. L’‘io’ ascolta e guarda: la riva si fa labbro, la schiuma si fa bava, dunque saliva di donna.
Il contemplare è sentire e comprendere, in una riappropriazione sincronica: il mare torna alla sua accezione di acqua e di rena, biblici elementi della donna.
Il mare si fa donna, direbbe Saba.
A sottolineare l’affinità mai interrotta fra la natura e i fantasmi dell’uomo, fra le parvenze e le proiezioni mentali, fra i sogni e i ricordi.

La metafora non è più soltanto cifra espressiva, ma strumento di conoscenza, che, pur partendo dal piano dell’esistente, lo intacca, lo traspone, lo deforma.
Lo fa germinare, per addolcire, con un bacio che viene da un altrove, la solitudine.