• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: luglio 2007

Scampoli

26 giovedì Lug 2007

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 53 commenti

E’ rimasta solo una tendina.
Una ruche arricciata torno torno e il finto putto tutto traforato, che si suona la tromba in santa pace.
Nella contrada delle botteghe morte.

Anche lì c’era un piccolo negozio.
Dietro la porta, ora pretenziosa: bugnato di legno e pomolo dorato.
Si vendevano scampoli.
Il metro tatuato sul bancone e le stoffe impilate tutte uguali: le più pesanti sotto, in testa le leggere, sull’unica mensola a parete.
E due vetrine strette. Messe lì, appena un po’ sbiecate, come certe ali che stentano ad aprirsi. Zampillo casalingo di raso e taffetas: dopo tre pieghe rigide, schiumava verso il basso, quieto e giallino, d’un legno compensato.
Vetrine un poco turche, ecco, col vaso di fiori tolto dal salotto.

Eppure.
Eppure era il rifugio per giorni tristanzuoli, neoparadiso di borsellini vuoti.

Orfani della pezza intera, un difettino a romperne la grazia, gli scampoli chiamavano in vetrina, catturavano un estro vagabondo. Senza dire bugie. Già in partenza erano un ripiego. Sedativo di bisogni e di speranze.

Con la stoffa a metro si tien dietro a un sogno che ti guida.
Lo si drappeggia con spreco di misure.
Lo si segue dentro ad un tessuto. Provare e riprovare. Per abitarlo, infine.
E’ l’idea a srotolar le pezze, per sentirne musica e fruscio, dietro il gesto regale che le offre.
Come ripassare i nomi della vita per trovare segrete rispondenze.

Con lo scampolo no.
Lo scampolo, il sogno, lo calmiera.
Lo inventa e te lo presta.
Un sogno di seconda mano.
Sta tutto lì, nello spazio di centimetri contati.
Da fare uscire da un blocco di pietrisco.
Un sogno a togliere, da saper vedere e farselo bastare.
L’orizzonte e il suo limite, insieme.

Vedrai che bella cosa salta fuori, prometteva la Rosa, piegando e ripiegando un quadrato di fiori provenzali. C’è poca stoffa, ma basta un bel pettino  e un’aggiunta alla manica per sotto.

Se per gustare un nettare occorre la più aspra sete, cosa sta dietro mai a una felicità di scampolo…
Quanta soave resistenza alla vita.

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Il tempo delle formiche sulla tavola

23 lunedì Lug 2007

Posted by colfavoredellenebbie in margini, qui da noi

≈ 17 commenti

Qui da noi c’è stato un momento che le cose andavano male.
Era arrivata la mietiliga, che si mangiava, dicevano i braccianti, il lavoro di tutti, coi suoi dentini di ferro.
La buttarono nel canale, e restò piantata col muso in giù e il resto in su, impudica come le galline d’acqua.
Fu riparata e rimessa fra le spighe.
I braccianti, allora, seminarono ferro e vetro fra le canne verdi, perché la mietiliga provasse a mangiarsi pure quelli.
Ma la macchina andava, andava, con la canzone del motore che sembrava uno sgarbo.
Ci fu lo sciopero e finì il pane.
Le formiche non trovarono più briciole per terra e le cercarono al sommo della tavola vuota.
Bisognò andare con le donne sul camion alla stazione in città, perché i crumiri arrivavano e le fedi d’oro erano già andate sulla bilancia per essere vendute.
Dal treno, facce grigie di fame e di paura a guardare altre facce grigie di fame e di paura.
La miseria si riconosce a fiato.

L’uomo scese dal treno, col bambino per mano.
Andò dal capolega con la voce grossa e le braccia d’olmo.
Parlarono un poco.
I crumiri non vennero in campagna.
Quella volta lì.
I braccianti tornarono e il bambino con loro, nella casa che dava sul canale, a contare le formiche sulla tavola, con le figlie del capolega, a raccogliere il radicchio selvatico e a cercare le uova fuori dai pollai.

Restò un anno e non parlò mai.
Giocava, si sporcava, mangiava, picchiava le bambine e sorrideva quieto.
“Se si picchiano e si sporcano vuol dire che stan bene”, diceva il capolega alla moglie, che scuoteva la testa.

Ancora oggi si parla del tempo delle formiche sulla tavola, nella casa che dà sul canale, e si pensa al bambino, scuro di pelle e di ricci, chiaro di sorriso, che non regalò mai la sua voce.

Pensieri bambini

11 mercoledì Lug 2007

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 37 commenti

(stavolta miei), sempre in risposta al gioco d’assemblare credenze…

Le mie credenze bambine vivevano invece di rapide tangenze.
Incrociavano un’idea e, per libera associazione, l’abbinavano ad un’altra. O la inventavano.
In questo modo il mistero della gravidanza mi fu subito chiarissimo, ad esempio.
Mi bastò vedere, durante una sagra, un omino che gonfiava i palloncini con una specie di pompa ad elio per capire al volo. Mi sfuggiva, a dir la verità, il punto di applicazione, ma portai a miamamma la pompetta della bici di mio nonno e le dissi, con poche commosse parole: ‘per il fratellino’.

Le mie credenze bambine a volte erano di seconda mano: avevano molto a che fare con le storie di mianonna, che mi frastornavano con un mondo fatto di animali e di strane abitudini.
Ero convintissima ad esempio che per prendere un passero bisognasse mettergli il sale sulla coda, che gli animali bianchi fossero tutti da latte, anche i cavalli e le galline, ovvio, e che le pantegane, abitatrici dei fossi, avessero le chiavi del palazzo d’oro attaccate alla coda. E credevo fermamente che la pipì dei rospi rendesse ciechi. Non riuscivo a capire quale distanza rendesse possibile, pericoloso e letale lo schizzo, ma, a ragion veduta, andavo a raccogliere le fragole nell’orto con gli occhiali da sole di plastica, montatura rosa. Rendeva più difficile cogliere l’esatto punto di maturazione, ma bastava assaggiare al momento e in situazione. Perché mai correre dei rischi? Da allora, comunque, continuo ad abbinare alle fragole il sapore della terra di contorno.

Le mie credenze bambine nascevano anche da complicatissimi ragionamenti di cui fuori-usciva soltanto una cresta di domande a punta, con cui ossessionavo miamamma.
Ero molto contrariata, soprattutto, dallo scarso indice di verità delle parole, per cui mi sembrava molto doveroso ribattezzare il mondo. Secondo me doveva esserci corrispondenza totale fra nome e cosa ed ero assai impegnata nella missione di rimettere le faccende a posto. Esempio: la parola ‘grano’ dice la verità, perché una spiga è fatta di chicchi; la parola frittella dice la verità perché è una cosina fritta, anche il bollito è onesto, via… Ma la parola ‘pesca’ per indicar un frutto… dai, sarà mica un nome che dice la verità. Allora io, la pesca, la chiamavo lasugosa e la padella caldella. Ecco.

Le mie credenze bambine erano logiche deduzioni sillogistiche sul filo di proprietà transitive. Le parolacce mi facevano schifo, specie se avevano a che fare coll’alto oppure col basso materico, nonché escrementizio. Secondo me, se uno aveva l’alito cattivo (che non sopportavo, né sopporto), il motivo era quello: parlava male. Le schifezze di parola, nel loro transito, producevano schifezze di alito. La prima volta dell’asilo, fui accolta, abbracciata e baciata da una suora dalla pelle di cera, fredda e unticcia: suor Luigina. Fui avvolta da un odore di aglio e di freschino, proprio della mota di Po e delle chiocciole disseccate, della penitenza e forse delle stimmate. La guardai scandalizzata, poi, rivolta alla genitrice (violacea per quello che temeva io dicessi) borbottai con incredula riprovazione: “ma mamma, anche leeeeei???!!!”

Pensieri bambini (fraterni)

09 lunedì Lug 2007

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 11 commenti

in risposta al gioco d’assemblare credenze d’infanzia (v. Giorgio Flavio, Herzog e altri ancora)

I pensieri bambini sono un po’ come la ragione dei vecchi: non stan mai fermi su una zampa, becchettano pezzetti di realtà, volano e trasvolano. Van cucendo tralci e stralci di credenze, con fili e piumette acchiappate nell’aria e messe da parte; parole, soprattutto, perché a qualcosa dovran pur servire.

Per dire, bastarono due giorni di vicinanza ad un cantiere edile e la fiaba di Alì Babà, col suo bell’apriti sesamo, per fare di mio fratello quattrenne un incontrollato bestemmiatore turco, capace di  usare colorite espressioni  per esprimere desideri, dal bicchiere d’acqua al trattore a pedali.
E bastarono dieci giorni di scuola materna, sotto l’ala suoresca, l’anno successivo, per redimerlo completamente e farne un bambinetto mistico, affascinato dall’ idea dell’anima.
La cercava, ovunque: a) per vedere com’ era fatta; b) al bisogno, per salvarla, secondo le indicazioni ricevute.
In famiglia, noto covo di liberi pensatori, questo slancio era scarsamente assecondato e allora il bambino si mise in proprio.

C’era, nel rustico, una grande scatola che apparteneva alla Rosa miamamma: conteneva un intero presepe di gesso, dono di una zia devotissima a Santa Rita, che in questo modo pensava di attrezzare la nipote di un parafulmine religioso, con cui affrontare i senzadio della famiglia nuova.
La Rosa miamamma lo teneva da anni là, assieme a vecchie caffettiere, portacatini di ferro battuto e brocche smaltate.

In un pomeriggio torrido, mentre la casa grande dormiva di un sonno arancione, miamamma si svegliò con la convinzione di avere sognato una cava di marmo brulicante di scalpellini che, con tocchi sordi, aggredivano una parete.
I rumori, però, persistevano pure al risveglio. Venivano dal cortile.

Mio fratello era seduto a terra, martello in mano, in una nuvola di gesso.
Essendogli andata buca con le persone, aveva circoscritto l’area: voleva salvare l’anima delle statuine. Una scatola di latta dei biscotti Mellin, lì, a testimonianza della dimora pensata per l’occasione.
Prima di salvare, però, occorreva trovare, quindi cercare… “Verso l’interno va il misterioso sentiero”, no?, avrei capito secoli più tardi…
Lui aveva cercato così: un colpetto e via. Assestato dall’alto verso il basso, con metodo e precisione.
Molto deluso dal vuoto interiore della prima statuina, aveva continuato imperterrito, senza risparmiare neppure le casupole dei pastori…, si sa mai.

Miamamma lo trovò ad opus perfectum, fra macerie di palme e comete, scontento e furioso, disamorato dell’anima, del cuore ed anche della milza.
Il sequestro, per motivi cautelari, del martello mise fine alla fase mistica e da quel momento mon frère si dedicò all’arte dell’invenzione fantastica, volgarmente detta bugia, praticata con esiti alterni ogni qualvolta un vuoto di realtà difettasse di spiegazioni e le reclamasse.

Viva voce.

El refolo

06 venerdì Lug 2007

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 17 commenti

Si viaggia per una strada di pianura, in un caldo ‘quasi sera’ .
Il luogo d’arrivo è dentro la mia infanzia: incuneato fra stormi di cugini in passeggiata domenicale.
(vestito di piquet bianco con il carré e scarpe pupa di vernice nera).

Ora si va per amici& teatro, in quei dintorni, verso una frazione che ha conservato nel nome la sua promessa di mare: sa di barene e canneti.

Calcolata, voluta, sperata libera uscita.

La strada è piana e basta un’ora, o poco più, per arrivare.
Si pensa alla pigrizia nascosta nel dire ma è lontano e si è contenti di non averla subita. Neppure si litiga col navigatore satellitare: lo si lascia suggerire inascoltato, ormai rassegnato al ricalcolo del percorso.

La chiesa dice che siamo arrivati.
Un bambino biondo mangia il gelato e ci saluta, senza conoscerci.
Piace.
L’interno conserva le solide geometrie del lavoro: triangoli di travi forti, quadrati di sughero alle pareti.
La sala…: facile attraversarla nel brusio di un dialetto rotondo, verso sorrisi che si rivelano. Dolce, l’appuntamento con l’umano, senza parole costruite e senza i vestiti della festa.
Piace.

Nell’aria, intanto, lievita l’attesa della prima: è un’opera che non conosco, ma che chiama col suo nome leggero.
El refolo.
Di Amelia Rosselli. Commedia veneziana in due atti, ambientata nei primi anni del secolo scorso.
Ci penso, a questo nome, e me lo ripeto piano, come quando ero bambina e cantilenavo le parole finché non diventavano musica e basta.
E’ così veneto, el refolo, nelle sue ‘o’ ripetute: mi fa pensare alla lingua del formichiere che prima si stende e poi si arrotola all’indietro. Un soffio di vento che arriva, intrusivo e leggero, butta per aria le carte, e poi si riavvolge sul filo della sua matassa.

Come sarà questo spettacolo, come sarà…

Delicato e prezioso, perché parla di amori di un tempo (protagonisti due vecchi innamorati, che non hanno convolato), sopiti in nome dell’obbedienza ai genitori, e di amori giovani e nuovi, (protagonista la nipote Marinella, desiderosa di realizzare  il suo sogno contrastato), scoppiettanti come fuochi d’artificio, capaci di cambiare le regole, di saltare i doveri in nome dei diritti: in grado di decidere la vita con irruenza, oltre la soglia del buon senso e del senso comune.

Rapido e composto, come si addice alla descrizione dei sentimenti non urlati ma attraversati con riguardo e pudori, piccole rivoluzioni su ali di colomba, scritte non nelle piazze ma sugli spartiti interiori, quelli delle emozioni, dei dubbi, dei ricordi, dei proclami amorosi affidati a una lettera, a  tentativi di fuga interrotti a metà, non a gesti eclatanti e rumorosi.

Giocato agli estremi del sorriso e del magone, perché i personaggi vanno a collocarsi a tante diverse quote dell’essere e del sentire.

Interpretato e vissuto (non recitato) con una bravura che suscita stupore, ad opera di un quartetto di incantevoli attori-sirena, che dialogano e interagiscono, sorridono e fanno sorridere, si commuovono e fanno commuovere, in una lingua che è carezza e scongiuro, filastrocca e preghiera, invito ad entrare nel cerchio.

Adattato e guidato con la essenzialità che sa andare dritta al cuore delle cose, per coglierne la sostanza e poi distillarla nei gesti, nei toni, nel ritmo.

Un regalo, dunque, che fa ragionare sulle diverse gradazioni dell’amore e sulla sua capacità di persistere e cambiare, nel corso della vita: ci sono amori che si compiono e amori che non si sono compiuti, senza per questo morire.

El refolo di una visita improvvisa, di un’altrettanto improvvisa richiesta d’aiuto, toglie polvere ad una storia che non c’è stata, e avrebbe potuto essere, fra la vecchia zia Caterina e il signor Momolo.
Ma le passioni implose, per fortuna, non sempre inagrano né fanno inacidire.
Portate alla superficie dal refolo, non fingono impossibili aggiustamenti, ma mostrano ciò che possono diventare: condivisione, amicizia fatta di chiacchiere e quotidiane partite a carte.
Un miele di acacia, buono per stemperare tossi e solitudini.

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