Il primo amore aveva un ché di giglio: una bianca  lattea, sottile di garrese.
Mammella gloriosa (vene azzurre sotto la pelle fina).
Per non dir del collo: gentile e di giogaia lieve.
Una bianca padana dai lombi generosi, occhi grandi e ciglia grigie.

Il fatto è che uno, la bellezza, la trova dove può.
Al vecchio Ulisse parlava nelle bestie.
Nelle vigne anche. Se maritate.
(Maritate e festanti con l’olmo a capitozzo, che poi le foglie le regala, se il medicaio finisce troppo in fretta)
Ma nelle vacche la bellezza parlava ancor di più.
Specie se grandi e di carne lenta.

Covato con gli occhi, scaldato dalle mani, fu il discorso muto di una vita intera.
Un dialogo d’amore ininterrotto che, un giorno, in terra di Toscana, toccò la meraviglia.
Meraviglia in forma di chianina, un trionfo di manto a porcellana.

Fermo il calesse, il vecchio Ulisse non resse allo stupore dell’armonia nel grande, nell’esteso.
Nel piccolo tutto fa figura, ma il grande non si presta a conservare un’eleganza asciutta.
E invece.
La linea del dorso scivolata, ma senza insellatura, che pareva tirata con la pialla. Col garbo di movenze antiche.

Bastò aspettare la fiera a primavera, la Fiera Millenaria, orgoglio della Bassa e delle stalle.
Alla Contotta giunsero sul carro tre manzette chianine col loro vitellone, da avviare per i floridi sentier della speranza.
Speranza di crescita e di riproduzione.
La Celesta, in casa, scuoteva un poco il capo: che farsene di tanta carne bella se il latte poi non era in proporzione?
Ma l’amore che calcoli può fare…
Che calcoli può fare…

Il vecchio Ulisse dava di striglia ed era soddisfatto: il vitellone, poi, gli cresceva in mano. Anche due chili al giorno.

“La Custansa la g’ha la coa bassa”.
La Celesta capì che era giunta l’ora, ché il parto comincia dalla coda, che s’infossa fra le natiche e s’ammolla.
Il vitello appena nato, robusto e tornito, chiamò la gente intorno, anche la figlia sposata col  bambino, che stava nel paese in là.
Così l’Ulisse seppe d’avere un alleato: la mano del nipote partì senza paura. Bell’aperta, passò sopra il vitello e si fermò sulla fronte, in gesto un po’ pretesco. ‘Si chiama Pin’.
Fu suo.

Il Pin diventò il loro appuntamento: il bambino d’estate, coi suoi bravi cambi ripiegati nel sacchetto, era già lì, dentro la stalla, a prendere musate con l’indugio, anche quando la bestia fu toro gigantesco, d’anca nevrile e prepotente.
Sempre lo riconosceva e lo salutava con tutta la sua mole di montagna bianca: obbediente, si spostava per farlo passare con  la striglia, rapide occhiate a fuga laterale.
Non altrettanto faceva col bovaro che stringeva nell’angolo di posta, incurante dell’invocazione ‘pogia, su pogia da brau’.

Una primavera il Pin fu pronto per il grande viaggio: l’esposizione, con il fiocco rosso fra le corna nere, sparate ai lati della testa, piccole e cattive.
Andò anche il bambino, certo, a fare terna e corteo sull’andadora, una fetta di strada fra gli stalli.
Il Pin riempì il suo con grande maestà.
Tanto era quieto che il vecchio Ulisse non lo umiliò  con alcuna servile legatura, ma qualcosa non andò per il suo verso: un tafano di troppo, la biada un poco secca, una romagnola sanguigna lì di fianco…
Il Pin fece retromarcia e al galoppo, fra gridi di gente e fuggi fuggi, percorse l’andadora menando culate a chi si avvicinava: avanti e indietro, come un’ape matta.

Il vecchio Ulisse, che era più lontano, a contrattare una cavalla nuova, accorse, con la ruga in fronte dei giorni di preoccupazione.
Poi si fermò di colpo, con la pelle d’oca a fare rampicante lungo le gambe e già mirava al petto.
In uno strano silenzio da ghiacciaia.
All’estremo della camminata il Pin scalpitava imbizzarrito col ciuffo dritto e il fiocco di traverso, dall’altro lato, scivolato sotto la transenna, il bambino gli andava incontro, senza dire niente.
Il vecchio si sentì il più stupido degli uomini, vecchio matto senza più gesti, senza più parole.
Il bambino era già così vicino…
Il Pin fece un muggito e si abbassò a dargli una musata.
Il bambino infilò il dito nell’anello del naso, e restò per un attimo quasi sospeso in aria.
Poi si tirò dietro la bestia piano piano, in un brusìo incredulo di fondo.
“E’ mio”, disse stupito per tutti gli occhi addosso.
E un po’ trionfatore.