C’è un rito di famiglia: si compie da tanto. Prima di Natale.
Avevo cinque anni, la prima volta: un cappottino grigio ad occhio di pernice (colletto di coniglio bianco). E tanto freddo. Piedi, soprattutto. Spilli ghiacciati e putini agli occhi.
Le mani scaldate a baci.
Paese non lontano e non vicino. Con la sua brava piazza e le luci di Natale.
La fanfara e le corone d’alloro. Il picchetto d’onore al monumento.
La stella cometa. La messa all’aperto, svelta.
Bandiere.
Noi, lì in silenzio.
A ricordare un ragazzo nostro, 30 anni, che sul finire del ’44 aveva già scelto molte cose. La sposa, la figlia, l’impegno: in montagna, poi qui, fra nebbie e cavedagne, la brigata garibaldi. Coi compagni, il fratello: stessa età, anche meno.
Plotone d’esecuzione Poligono di tiro. Bersagli ragazzi.
Chiuso.
Morire per vivere, mi spiegavano, da piccola. Perché la libertà. Perché la dignità.
C’era da capire questo andare.
Dietro nomi di persone viste solo nelle foto.
Si è andati. Anche stamattina. La stessa strada. Fra i campi, un tempo. Fra le case ora.
Quella fatta dai partigiani, prima del plotone.
Dai loro pensieri, anche.
Stamattina la strada è più dura.
Tutti gli anni sul cuore, tutte le assenze sul cuore, tutti i buchi sul cuore.
Ci si cerca con gli occhi e ci si trova. A specchio, fra noi.
La gente guarda i nostri abbracci, come ogni anno. Veniamo da parti diverse. Non è dato mancare.
Abbracciamo anche chi non c’è e gli diciamo che ci siamo noi e ci saranno i piccoli, quando avranno cinque anni, almeno.
Scalderemo le mani a baci.
Al bisogno.
Stamattina più di sempre penso a quanto è rovescio il mondo: morire per vivere, morire per lavorare.
Viene a trovarmi il dolore muto di questi giorni. A fittone. Quello che non mi ha lasciato scrivere.
Altre volte, in momenti di dolore intimo e privato, le parole andavano all’indietro, a pescare in zone franche. Esonerate dall’essere mimetiche.
Ché la divergenza aiuta.
Questi invece sono stati giorni di un silenzio pesante, cementato: né racconti né pensieri fermati sulla pagina. A divergere c’era da straniarsi.
Giorni ad ascoltare le parole degli altri.
Mi hanno scosso i roghi di Torino, tanto.
Non sapevo dove attaccare il mio star male, portatrice dolorante di privata coscienza, dopo aver vissuto due terzi di vita dentro una molecola.
Pensavo a come, solo pochi anni fa, qui da noi, ci si sarebbe trovati nella stanzaccia di sempre, fredda come un pollaio, magari a fare un volantino mal scritto, a dire forse cose piccole e banali, ma a dirle insieme. Non avremmo cambiato la realtà, né spento un fuoco, né ottenuto giustizia, ma almeno con-sentito la nostra rabbia, quello sì.
I vecchi ci avrebbero raccontato cose che non c’entravano, magari dello sciopero del ’54, ma ci sarebbero stati.
Adesso i vecchi non ci sono più e c’è un Arci nei pressi di quella stanza, ormai adibita a liti condominial-elettorali: lì intorno la gente gioca a carte e mangia la pizza.
Stamattina so dove attaccare il mio star male: ha fatto mucchio con i vuoti, con quello che poteva essere e non è stato, con le cose sghembe da cambiare, con l’amaro.
L’oratore ha l’età dei padri. Ha freddo e si appoggia a un bastone. Resiste.
C’è ancora tanto da fare, dice.
Bisogna andare a capo.
Ricominciare.