La chiesa se lo guardava come un figlio piccolo, il chiosco di legno e finestrina, messo lì, sull’orlo del sagrato. A vegliare sull’ingresso bello, matrimoni e funerali, ché l’altro era per intrusioni mattiniere, alla messa dell’alba, o per qualche preghiera d’emergenza.
Così, nell’edicola l’incenso era di casa.
Ne restavano impregnati giornali e giornalini.
Quelli un po’ impudichi (soltanto un po’, sia chiaro) non reggevano a tale vicinanza: si lavoravano una nicchia sotterranea, per calarsi a piani bassi e oscuri. Vi restavano nascosti.
A riveder le stelle tornavano soltanto se l’ammicco brufoloso di un tardo adolescente implorava.
Allora la vecchia con sciallino, atermica regina del chioschetto, cedeva, ma con riprovazione.
Son meglio le castagne – diceva e se le girava con mani brustolite sul braciere: la Lollo in costume infilata a testa in giù, dentro ad un sacchetto.

Ma se era estate, la lusinga c’era e aveva effetto.
Si chiamava granita.
Quattro gusti: Amarena, Tamarindo, Orzata, Menta.
Poi uno misterioso, offerto con promessa di bontà assoluta.
Il gusto Pranfiiin.
Di colore incerto, variabile in un giro di giornata, attirava col segreto e con il nome.
Come resistere al richiamo che dice l’effetto, mica la sostanza, con quelle iii protese come spade, puntute e dolci sopra i dubbi?
La granita Pranfiiiin non deludeva mai, col suo sapore migrante e vagabondo.

Con senso campagnolo del risparmio, la vecchia usava un’alchimia.
Sotto il banco, dentro a una boccetta, aggiungeva a strisce e a strati le gocce di sciroppo rimasuglio, i fondi di bottiglia. E scuoteva, il giusto.
Così la felicità bianca dell’orzata si spegneva un po’ nel tamarindo, ma si alleava col rosso d’amarena. La menta a fare il resto, con il suo acuto, tutto di frescura.

A dire che, spesso, si vive di gioie di risulta.
E della mescolanza che sanno regalare.

Un anno pranfiiin, amici.
z.