C’è un paese piccolo, dopo il mio. O prima, se si vuole.
Che ci si arrivi dall’argine oppure dalla strada, sempre s’incontra una chiesa.
Perché qui le fedi sono due e due anche le chiese.
Quella del prete da quasi mille anni guarda il Po e tiene il sole sulle pietre e l’erba poco distante dalla porta.
Quella del pastore di Valdo si ritira di un niente dalla strada e accende una candela sullo stemma: a guardia sette stelle.

Succede che nello stesso pomeriggio si debba cambiar luogo, per portare un abbraccio o un ultimo saluto.

Ero nella chiesa valdese, ieri.
Per una vicinanza.

Una stanza chiara, con  dracena all’angolo, unico ornamento, e i figli suoi di pianta, nei vasi più bassini.
(Che altro poi non è, una talea? Un quasi passamano della vita, un tagliare per far rigenerare)

Sento cantare i vecchi.
C’è un pianto vibrato nella loro voce che ti squaderna il cuore.
Mi lascio attraversare.
Come quando un filo troppo grosso si porta, dietro l’ago, la memoria della stoffa penetrata.
Si lascia qualcosa qui.

Ascolto la donna pastore: racconta (forse accarezza) questa madre antica che se ne è andata via, ma prima ha scelto inni e salmi; perché dicano di lei: del suo non mancare di nulla, del suo essere a casa.

Lo stesso salmo, anche nell’altra chiesa, oggi, mi dice la Elia, piano.

I sentimenti viaggiano in tondo, nel piccolo: ci si è tutti dentro.
E le parole ne sono le talee, io credo.