• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: marzo 2008

Madri

26 mercoledì Mar 2008

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 44 commenti

Quella cucca della modenese mica se n’era accorta.
Delle uova false e tutto quanto.
S’era trovata con il cesto in testa e punto.

Tutto era cominciato qualche giorno prima.
Non aveva beccato l’ortica, eppure segnava una  malinconia ubriaca.
Si teneva da sola contro il muro. Dietro il rosmarino, dove la terra è grassa, nera, e si vela dell’umido di aprile.
Un borbottio in gola o a mezzo becco. Chioccio e rotondo come i grani del rosario.
Stava quieta e selvatica, in umor di carestia.

La Elsa l’aveva guardata bene bene e poi s’era decisa.
Quattro uova di legno. Lisce di pialla e tiepide di cenere. Nella cassetta dei cachi, con il fieno dentro. Infilate di fretta e a tradimento.
La modenese, andata a bagolare dentro il nido, l’aveva schifato come sospettosa.
Tre beccate in terra a prendere il viatico, poi un ripensamento: un saltino secco  lì, sul bordo, infine a coccoloni sulle uova, gonfia e matrona. A cova. Pronta a levare le ali solo passasse il vento.

L’è giusta, l’è giusta – s’era detta la Elsa, che  aveva un gran pensiero: scegliere pareva poca cosa. Invece. Stavolta toccava a lei. Di anni pochi.
Impara, le aveva detto la Celesta suamamma, ché ormai c’è da provare. Se nascono i pulcini, li vai a vendere al mercato. I miei, più quelli della Livia, ti fai la tela per il lenzuolo grande.
Eh. Facile no. Mettere a cova è come un terno al lotto. Con la tacchina s’andava sul sicuro: venti uova coperte l’anno prima. Ma già se l’era presa sua sorella.
La Elsa ragionava e ragionava.
A scegliere male, una chioccia bugiarda poteva capitare, una gallina di luna matta.
C’era da perdere uova gallate, onore e tela per l’armadio della dote.
Nel pollaio, si sa, ci son zampe nervose, specie a primavera. Storie di sdegno e di abbandono, come quella della livornese che con la grinfia ogni tanto si segnava un uovo: tacca di rabbia e di dispetto, ché quello non era il suo mestiere. Far la chioccia è quasi una chiamata.
La gallina rossa sembrava proprio giusta, col suo verso rauco ed ingozzato.
Così la Elsa era stata svelta, dopo la prova con le uova false, la chioccia in braccio alla Celesta, aveva messo giù quindici uova, nel fieno dentro la cassetta: quelle vere, con dentro la promessa.
La chioccia ferma, già pronta a cedere calore ed energia di piume. Col corach rovesciato a far da gabbia.

Non c’era stato errore.
Un solo uovo chiaro e la pazienza del conservare il caldo: un panno di lana sulla cova, quando la chioccia lasciava un poco il nido.
Poi, i giorni della schiusa: pulcini di zampette molli, come lisciati con l’albume, ad asciugarsi piano fra le piume,  a prender confidenza con la luce che imbambola  e stordisce.
E l’ala, angela e gelosa, ad oscurare il troppo.

Prese la strada dell’argine, la Elsa, una mattina di maggio maturo: le veroniche già tutte illuminate.
La bicicletta sghemba, per i panieri grandi. Due ceste di pigolio babele: un pestacchiare inquieto contro il vimini intrecciato. Tutti i nati del cortile a fare fitto per il suo lenzuolo.
C’era d’aver soddisfazione, come sentirsi pronte da marito.

Il mercato era nella piazza larga, coi roveri  lasciati lì nel mezzo, a fare ombra.

Si mise con le ceste vicino al banco delle stoffe, giusto per far presto ed evitare il sole.
E intanto c’era modo di guardare, ché le mussole e i sangalli, i crespi e i moerri prendevano gli occhi come certe gibigiane che friggono le ciglia, eppure lo sguardo ci sembra andar da solo.
Certo eran belli anche i rotoli di tele, di vera pelle d’uovo fina fina, e di percalle lustro che a ricamarlo a intaglio viene così bene: trionfi del letto,  ma la seta … Ah, la seta chiamava, oh se chiamava con quell’azzurro d’iridata piuma, un azzurro che era di famiglia, nel nome della madre, in certi  lampi sbirciati nello specchio. Da farci una veste per andare a messa, col collo allacciato sulla spalla. Però.

I pulcini andarono venduti: i suoi e quelli della Livia e quelli di suamamma.
C’era di che comprare.

Ho mica resistito, confessò già pentita alla Celesta, aprendo il fagottino: la seta, azzurra, disciolta a lago sulla tavola.

La madre guardò la sua figliola, ancora così chiara, i fianchi sottili nel grembiule e quell’ombra di petto un po’ indecisa. Guardò i suoi occhi e poi anche la stoffa, senza toccarla neanche con un dito. Fu come fare un salto nel domani: un vederla con i capelli a crocchia, le gambe macchiate dai tafani e gli anni pronunciati dall’addome. A raccogliere le uova nel pollaio, i bambini a tirarle la sottana e il fuoco a chieder legna.

Poter fermare il tempo almeno in un vestito…

Stupida, le disse forte, ma solo con la bocca.

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Brevissimo passaggio a primavera

23 domenica Mar 2008

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 19 commenti

Anche la primavera forse ha i suoi pudori.

Penso oggi, sotto un cielo soffione, fra movimenti di terra delle nubi.
Una pioggia fine ed insistente: lì, a buttare  tutto sul grigio, persino la peluria dei salici, che s’arriccia di mitezza mattutina.
Colore della salvia appena colta.

Che sia un velare per nascondimento?
Un diluire un eccesso di pienezza, un rigoglio di sopraffazione?
Un tirarsi indietro, rispetto alle promesse?

Prove di reticenza, credo.

Ma l’erba non ci sta e fila il suo verde come vuole, incurante dell’acqua che la pigia.

Il cielo crepita come una pagina, a nuovi guizzi d’indecisione.

Fughe

14 venerdì Mar 2008

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 56 commenti

Abitava in mezzo alla campagna.
Cugina di miamamma, che la sentiva suora dentro e in armonia con gli angeli, perché suonava il piano.
Allora c’era da imparare. Il piano, dico. Ché mia mamma già pensava ai cori, io e lei a quattro mani, più i gorgheggi.
Ma.
C’era da andare al paese vecchio. In corriera. Con degli orari strani.
Bisognava aspettare la fine delle scuole.
(La corriera calda del primo pomeriggio, con l’odore di grasso del motore e di cane  mal asciugato  al sole. La morgana d’acqua sulla strada. Io da sola, biglietto in mano: scendere alla fermata giusta, musica da bambina sotto il braccio)
No, che non volevo andare: la maestrona era di fiato corto, con la faccia un poco molle e quei pallori sfatti di gonfiore e di perline.
Sudava, sudava tanto: una luna scura sotto l’ascella, camicette impiccate al collo, di cotonina chiara..

La corriera si fermò sullo stradone bianco: c’era un po’ da camminare, per andare oltre il cimitero.

– Cosa fai qui, disse il custode vecchio, ch’era parente.
– In corriera. A salutare il nonno, e indicai la tomba grigia con il dito.

Un pomeriggio fra  marmi e capitelli. Senza paura. A leggere scritte e fotografie, solo col disagio, al fondo, di una bugia a metà.
Poi le viole corvine, quelle piccole e tardive che non sono di nessuno. E le bocche di leone gialle, nelle crepe dei muri di cappella.
Colte e disposte qua e là, per inventare storie d’amore fra nomi belli e lontani, a sposarli fra loro e fare su famiglie, con gli angeli custodi.
Per tutti lo stesso fiore.
Un pomeriggio passato a rassettare ghiaie, insieme al vecchio Sesto. A ripassare d’argento fregi e catenelle. Con il pennellino.

Miamamma non poté sgridarmi: ritrovata viva lì, in un posto di quiete e di silenzi.
Lì, che mai poteva accadere di cattivo?

Ghiaccio

03 lunedì Mar 2008

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 47 commenti

Faceva così caldo che le mosche parevano più grosse, contro la rete fitta della finestrina.
Come in attesa. Le ali a bilanciere.
Se ne stavano lì, a poppare l’aria, lontane dalla pelle del latte, che è di crema.
Il latte della sera prima, pigro e fermo nella vasca di zinco: nella notte, quieto, a spurgare panna.
Aspettando mattina.

La Dina si guardava  quel suo bianco fitto che già grinzava  un po’, nella stanza vicino alle caldaie, il pavimento umido di acqua.
C’era da scremare, e subito. E fare burro, per non perdere quel giro. Un giro di panna buona, di una vasca intera.
Ma il ghiaccio dove stava? Per fare burro ci voleva il ghiaccio e subito.
A sapere dove se n’era andato quel senza parola di Ghelfo del carretto…
Martedì mattina, ‘na stecca intera, aveva detto.
Seee. Andato sulla ghiaia di Po, quel cristo, a mungere i tacchini.
Maledette le tessere e il confino. Da sola col casello e coi ragazzi. E le mosche e la panna e il caldo agro.
Ci vado io, con la bicicletta e un sacco. Il figlio di mezzo era piccolino e con quella testa così rasata corta sembrava ancor più magro e scuro.
Ma se hai pianto sul letamaio, fino a ieri, rise sua madre.
(Faccenda di capelli, tagliati a tradimento, e quotidiane lacrime nascoste, sul luogo dello scalpo)

Ormai era detta e bisognava fare. Che d’orgoglio si vive e poi ne avanza.

Il Gi partì tronfio come un gallo spennacchiato sulla bici grande del padre, i pedali alzati con due legni, legati stretti con lo spago.
La giasera era nel paese altro e bisognava tagliar via per la campagna, se si voleva il presto.
L’andata fu tutta d’orgoglio e decisione, con prove di buchi e d’equilibrio, le mani staccate dal manubrio quasi scottasse al pari di un’offesa.

La moglie di Ghelfo del carretto inveì contro il suo uomo, che diceva le cose e poi non le faceva, e involtò la stecca nel sacco ben doppiato.
Un pane freddo freddo. Pesante fino a maneggiarlo in due.
Hai da star piegato, così va un po’ sulla spalla e un poco sul manubrio, la donna gli disse, già dubbiosa.
Il Gi partì meno sgarzullo, tutto tirato avanti, la faccia spalmata contro il ghiaccio.
Posso neanche girare la testa – ragionava – che se non vedo il fosso…
E gli veniva da ridere, potendo, a  pensarsi nella pavarina, lui e il ghiaccio, con le rane fredde, intirizzite.
Meglio pedalare a testa bassa e non ascoltare la fatica.
Ma.
Il ghiaccio già stava a trasudare: la juta più di tanto non poteva. Un serpentino frigido e sottile, a leccargli il collo e la schiena.
Così provò a fischiare, ma la guancia dov’era mai finita? Non c’era più.
Cedere adesso, no, non si poteva. Un chilometro ancora, forse.
Magari fermarsi un attimo, però, sotto quel pruno, per ritrovare la guancia e metterla in motore con una susina gialla. E poi sdraiarsi un poco poco al sole, per sgelare la spalla.
Il ghiaccio ben coperto all’ombra della pianta.

La madre arrivava a piedi, con una frasca di sanguinello in mano: due passate di salice al bisogno. Sulle gambe nude, in caso.
Lo trovò addormentato, col ghiaccio squagliato per metà: la trama della juta impressa sulla faccia magra.
Neanche lo svegliò.
Fece con quel che c’era. Il ghiaccio già smollato nella zangola, a caracollare con quel fsssc fsssc disciolto.
Contro le doghe. Contro le sue spalle.
Aprì lo sportellino quando il rumore fu d’acqua sbattuta: prese la pasta spumosa e se la tenne in mano.
Tante goccioline a fare fitto sul burro fresco.
A pians anca al buter, si disse.

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