Quella cucca della modenese mica se n’era accorta.
Delle uova false e tutto quanto.
S’era trovata con il cesto in testa e punto.

Tutto era cominciato qualche giorno prima.
Non aveva beccato l’ortica, eppure segnava una  malinconia ubriaca.
Si teneva da sola contro il muro. Dietro il rosmarino, dove la terra è grassa, nera, e si vela dell’umido di aprile.
Un borbottio in gola o a mezzo becco. Chioccio e rotondo come i grani del rosario.
Stava quieta e selvatica, in umor di carestia.

La Elsa l’aveva guardata bene bene e poi s’era decisa.
Quattro uova di legno. Lisce di pialla e tiepide di cenere. Nella cassetta dei cachi, con il fieno dentro. Infilate di fretta e a tradimento.
La modenese, andata a bagolare dentro il nido, l’aveva schifato come sospettosa.
Tre beccate in terra a prendere il viatico, poi un ripensamento: un saltino secco  lì, sul bordo, infine a coccoloni sulle uova, gonfia e matrona. A cova. Pronta a levare le ali solo passasse il vento.

L’è giusta, l’è giusta – s’era detta la Elsa, che  aveva un gran pensiero: scegliere pareva poca cosa. Invece. Stavolta toccava a lei. Di anni pochi.
Impara, le aveva detto la Celesta suamamma, ché ormai c’è da provare. Se nascono i pulcini, li vai a vendere al mercato. I miei, più quelli della Livia, ti fai la tela per il lenzuolo grande.
Eh. Facile no. Mettere a cova è come un terno al lotto. Con la tacchina s’andava sul sicuro: venti uova coperte l’anno prima. Ma già se l’era presa sua sorella.
La Elsa ragionava e ragionava.
A scegliere male, una chioccia bugiarda poteva capitare, una gallina di luna matta.
C’era da perdere uova gallate, onore e tela per l’armadio della dote.
Nel pollaio, si sa, ci son zampe nervose, specie a primavera. Storie di sdegno e di abbandono, come quella della livornese che con la grinfia ogni tanto si segnava un uovo: tacca di rabbia e di dispetto, ché quello non era il suo mestiere. Far la chioccia è quasi una chiamata.
La gallina rossa sembrava proprio giusta, col suo verso rauco ed ingozzato.
Così la Elsa era stata svelta, dopo la prova con le uova false, la chioccia in braccio alla Celesta, aveva messo giù quindici uova, nel fieno dentro la cassetta: quelle vere, con dentro la promessa.
La chioccia ferma, già pronta a cedere calore ed energia di piume. Col corach rovesciato a far da gabbia.

Non c’era stato errore.
Un solo uovo chiaro e la pazienza del conservare il caldo: un panno di lana sulla cova, quando la chioccia lasciava un poco il nido.
Poi, i giorni della schiusa: pulcini di zampette molli, come lisciati con l’albume, ad asciugarsi piano fra le piume,  a prender confidenza con la luce che imbambola  e stordisce.
E l’ala, angela e gelosa, ad oscurare il troppo.

Prese la strada dell’argine, la Elsa, una mattina di maggio maturo: le veroniche già tutte illuminate.
La bicicletta sghemba, per i panieri grandi. Due ceste di pigolio babele: un pestacchiare inquieto contro il vimini intrecciato. Tutti i nati del cortile a fare fitto per il suo lenzuolo.
C’era d’aver soddisfazione, come sentirsi pronte da marito.

Il mercato era nella piazza larga, coi roveri  lasciati lì nel mezzo, a fare ombra.

Si mise con le ceste vicino al banco delle stoffe, giusto per far presto ed evitare il sole.
E intanto c’era modo di guardare, ché le mussole e i sangalli, i crespi e i moerri prendevano gli occhi come certe gibigiane che friggono le ciglia, eppure lo sguardo ci sembra andar da solo.
Certo eran belli anche i rotoli di tele, di vera pelle d’uovo fina fina, e di percalle lustro che a ricamarlo a intaglio viene così bene: trionfi del letto,  ma la seta … Ah, la seta chiamava, oh se chiamava con quell’azzurro d’iridata piuma, un azzurro che era di famiglia, nel nome della madre, in certi  lampi sbirciati nello specchio. Da farci una veste per andare a messa, col collo allacciato sulla spalla. Però.

I pulcini andarono venduti: i suoi e quelli della Livia e quelli di suamamma.
C’era di che comprare.

Ho mica resistito, confessò già pentita alla Celesta, aprendo il fagottino: la seta, azzurra, disciolta a lago sulla tavola.

La madre guardò la sua figliola, ancora così chiara, i fianchi sottili nel grembiule e quell’ombra di petto un po’ indecisa. Guardò i suoi occhi e poi anche la stoffa, senza toccarla neanche con un dito. Fu come fare un salto nel domani: un vederla con i capelli a crocchia, le gambe macchiate dai tafani e gli anni pronunciati dall’addome. A raccogliere le uova nel pollaio, i bambini a tirarle la sottana e il fuoco a chieder legna.

Poter fermare il tempo almeno in un vestito…

Stupida, le disse forte, ma solo con la bocca.