• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: giugno 2008

Facciamo finta

27 venerdì Giu 2008

Posted by colfavoredellenebbie in effetti di lettura

≈ 43 commenti

Facciamo finta che io sappia aggiungere una tag.
(In realtà non ho il coraggio di disturbare un’amica e chiedere come si fa)
Facciamo finta che questa tag indicizzi degli “Effetti di lettura” e si ponga come il risultato di uno scorrimento  fra un libro e un suo lettore.
Facciamo finta che questo scorrimento approdi in forma di parole.

Il primo libro è Iancura (GBM, Messina 2003). Il suo autore è Paolo Casuscelli.

Per Iancura

Ci sono parole che arrivano senza preavviso.
Non pensate, neppure cercate.
Non era dato conoscerne l’esistenza.
Eppure, messe in circolo, sanno decidersi e decidere. Chiamano con la seduzione benevola della sorpresa, con il richiamo incantatore del lontano.
Si legge.

E non è “riprendersi l’ombra” che pareva essersi appartata. Non è specchiarsi in un doppio.
E’ sentire il sollievo di  nodi/distanze appianate, come le pieghe di certi lenzuoli conservati a lungo, cui basta l’aria per perdere un segno di ferro indurito.
E’ sapere di essere a casa, fra tele di grana grossa e pesce, fresco di mare, nel forno.
Nella casa del padre.
“Luogo originario” delle parole di “prima”, orma, non nido, direzione non sosta.
“Luogo originario”, dove non si osano voli a rimarcare un sapere, ma si sceglie l’alfabeto (del dire e del dirsi) più semplice ed universale.
E’ la casa delle carezze di nardo e di olmo, dei gesti che non si spiegano se non coi gesti.
Nella casa del padre  non sono ammessi stupori o clamori che sommuovono la quiete di certi conversari lenti: solo nel parlar pigro si trasmettono i modi che fanno bene alla vita.
Nella casa del padre stanno i calchi, gli stampi, la prima volta delle cose.
Si torna alla casa del padre come si torna al mare, come si torna all’isola: per ripassare, in libertà sciolta, la prima volta della vita. Radice o archetipo non importa: è certo che si vive da essa derivando, in essa rientrando.

Per questo Iancura è casa del padre e della prima volta, non rivelata come sa fare un dio, ma esperita.
E’ il luogo dove  si torna a cercare la propria nudità, che è infanzia, natura, corpo.
Non locus amoenus, ma locus imus.
Terracqua, quanto una foce e una sorgente.

Si legge.

E si assapora la leggerezza, lieve come sa esserlo il riposo dopo la fatica, quando le membra giacciono al fondo e il respiro riprende la sua regolarità.
Leggerezza del guanto che si rivolta e fa fiorire sulla superficie una peluria morbida e gentile, mentre lascia sull’altro verso, sull’altro lato, le ammaccature e i segni impressi dall’esercizio dell’esserci.
Leggerezza come decantazione, che nasce dallo sgravarsi progressivo dei pesi: percorso di libertà e di liberazione rispetto all’inessenziale.
Leggerezza come sguardo che perde la marca del giudizio e del pregiudizio e si fa delicatezza del cum-prehendere, senza rinunciare alla profondità.
Di questa salita alla superficie godono fudditti e alunni, maiali e cernie, asini ed intime epifanie, alla stessa maniera: con la gioia dell’aquilone.

Per questo Iancura è operazione alla Chagall.
E’ scorrere lieve sul biancore del mare che baratta la sua profondità per trasformarsi in superficie su sui scivolano sospensioni e attese.
E’ togliere confine fra mare e terra, fra dentro e fuori…
E’ salire (ma non con la presunzione della superiorità, bensì con la perdita di scudi, difese e zavorre) e ampliare la prospettiva fino a renderla capace di accogliere, nello stesso sguardo, la bufera e il porto.
Iancura, allora, come conquista della postazione dell’aquila-io che “si libra in alto su se stesso”, felice di vivere come un’isola, dimora di se stesso.

Si legge.

Felici di chi ha imparato a vivere sopra un’isola e “fa di sé, felice, quell’isola che vive”.
Felici di chi sa trovare l’anima delle cose e lo spessore della trasparenza.
E felici, ancora, di chi ha celebrato il suo particolarissimo incontro con la scrittura.

La scrittura può essere tante cose.
Desiderio, aspirazione volta a colmare una privazione o un vuoto di realtà:  ponte verso un completamento o una rimagliatura fatta di parole.
Necessità, imperativo ineludibile “ in tutti i mondi possibili”,  inevitabile risposta a ciò che “ditta” dentro: urgenza non contrattabile.
In Iancura la scrittura sembra levigare questa opposizione e scioglierla nel  piacere della necessità, nel desiderio amorevole verso ciò che è indispensabile alla vita, ciò che la profuma e le dà colore.
Verso la parola, pertanto.
Ciò che passa per la parola, in Iancura, nasce dalla vita e, circolarmente, torna alla vita, portandosi dietro lo “struscio” con la realtà e, come ostaggio, i nomi delle cose: quelli colti e desueti, quelli popolani e terragni, quelli che fanno sorridere, quelli che galleggiano sul dolore senza mai affondare.
E’ parola che si getta agli estremi, che si attarda in registri diversi e di tale varietà si compiace, sicura, perché, in questo imparentarsi con la realtà, si compie nel suo destino.
Si fa parola di lingua materna, cui spetta il compito non di giudicare, bensì di accogliere nel suo grembo  il brusio dell’esistenza, non confuso e indifferenziato, ma polifonia di voci e di cose.

Parola femmina, come iancura, latte di mare.

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Cronache dal terrazzo

13 venerdì Giu 2008

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 54 commenti

C’è tanta pioggia intorno, stamattina.
Ferma sulla terra.
Seduta sull’acqua che l’aspetta.
Le foglie grondano, snervate.
(Ne senti la frusta umida, a prolunga, sulla pelle che ancora sa di casa)

Come un odor di malattia, a spostare frasche d’aucuba già annerita e ortensie molli.

Il merlo è immobile sul ramo dell’ippocastano consenziente. Muto.
(Ben si vede, stagliato contro il muro, che accoglie le cose e le fa ombre)

Gira il capo a scatti un po’ nervosi. Cerca il piccolino, fuori dal nido, ché sono giorni di cauta iniziazione.
(Ah c’è stato un gran gioco di richiami, fra le pause del cielo, proprio ieri)

Il merlo nel becco tiene un verme.
Ne avverti l’interna indecisione.
Fischiare non si può: il rischio è perdere il bottino.
C’è dunque da chiamare senza voce, con segni e gesti forse da inventare.

D’un tratto ci si sente merli dal fischio imploso.
Sospesi sul ramo di eterne privazioni.
La vita nel becco, con la sua paglia di tempo e il suo filo di miele.

Si vive di esiguità.

E la voce per dirlo trova un nodo.

Sguardi

05 giovedì Giu 2008

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 29 commenti

Tag

passaggi

Al crepuscolo, un cielo pascoliano.
Nero di pece, a monte. Corpi di nembi grevi, turbati e in movimento.
Stracci di nubi chiare. Una spera di luce o di lucciola, impigliata nei bordi.
Poi, al centro, un vuoto stupito e rarefatto: carta sottile, disposta a squarciarsi  perché l’altrove si scavi un pertugio e possa passare…
Per un attimo la falce di un cuculo e la tentazione di contare gli anni a venire, sulla cadenza del suo verso rimbalzino.

Allora si va.
Per certe intese mute che dialogano nel tempo.

C’è un posto che ha scelto l’orizzonte, qui.
Soltanto linee piane e case liquide di muri. Allungate e pigre, filano  un pensiero piatto e abbassano i soffitti.
Ai bordi della strada dritta, il grano. Solo il grano. Gloriosamente.
Verde cavalletta, ora, e piumoso, quasi schiumoso, di reste.
Compatto e mobile. Fitto e leggero.
Non resiste al vento che lo segna e disegna, a onde e a cerchi, a riverberi chiari e a infittimenti scuri.

E’ il nostro mare, il grano.

(Se ne sentono gli schizzi in forma di fruscio, a passare per questa via che divide in due, come una scriminatura posticcia, mentre il cielo continua a lavorare, a spostare corpi e colori)

Si percorre il mare per snidare il fiume.
Ma il fiume non è più fiume, ora.
L’acqua è terra grigia, sciolta e pastosa.
Terracqua cespugliosa, che al sommo fiorisce di cime di  robinia e di sambuco.
L’isola non c’è più: è andata sotto.
Spuntano a pelo d’acqua le guglie oblique degli arbusti, come da una città sommersa.

L’isola si è fatta  mano e tiene le radici sparse del boschetto, che, per resistere, si piega e segue il senso della corrente.

E, in questo transito cedevole e stordito, capire: si galleggia fra prestiti di cose che vivono soltanto nel nostro sguardo.

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