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Al crepuscolo, un cielo pascoliano.
Nero di pece, a monte. Corpi di nembi grevi, turbati e in movimento.
Stracci di nubi chiare. Una spera di luce o di lucciola, impigliata nei bordi.
Poi, al centro, un vuoto stupito e rarefatto: carta sottile, disposta a squarciarsi  perché l’altrove si scavi un pertugio e possa passare…
Per un attimo la falce di un cuculo e la tentazione di contare gli anni a venire, sulla cadenza del suo verso rimbalzino.

Allora si va.
Per certe intese mute che dialogano nel tempo.

C’è un posto che ha scelto l’orizzonte, qui.
Soltanto linee piane e case liquide di muri. Allungate e pigre, filano  un pensiero piatto e abbassano i soffitti.
Ai bordi della strada dritta, il grano. Solo il grano. Gloriosamente.
Verde cavalletta, ora, e piumoso, quasi schiumoso, di reste.
Compatto e mobile. Fitto e leggero.
Non resiste al vento che lo segna e disegna, a onde e a cerchi, a riverberi chiari e a infittimenti scuri.

E’ il nostro mare, il grano.

(Se ne sentono gli schizzi in forma di fruscio, a passare per questa via che divide in due, come una scriminatura posticcia, mentre il cielo continua a lavorare, a spostare corpi e colori)

Si percorre il mare per snidare il fiume.
Ma il fiume non è più fiume, ora.
L’acqua è terra grigia, sciolta e pastosa.
Terracqua cespugliosa, che al sommo fiorisce di cime di  robinia e di sambuco.
L’isola non c’è più: è andata sotto.
Spuntano a pelo d’acqua le guglie oblique degli arbusti, come da una città sommersa.

L’isola si è fatta  mano e tiene le radici sparse del boschetto, che, per resistere, si piega e segue il senso della corrente.

E, in questo transito cedevole e stordito, capire: si galleggia fra prestiti di cose che vivono soltanto nel nostro sguardo.