C’è tanta pioggia intorno, stamattina.
Ferma sulla terra.
Seduta sull’acqua che l’aspetta.
Le foglie grondano, snervate.
(Ne senti la frusta umida, a prolunga, sulla pelle che ancora sa di casa)

Come un odor di malattia, a spostare frasche d’aucuba già annerita e ortensie molli.

Il merlo è immobile sul ramo dell’ippocastano consenziente. Muto.
(Ben si vede, stagliato contro il muro, che accoglie le cose e le fa ombre)

Gira il capo a scatti un po’ nervosi. Cerca il piccolino, fuori dal nido, ché sono giorni di cauta iniziazione.
(Ah c’è stato un gran gioco di richiami, fra le pause del cielo, proprio ieri)

Il merlo nel becco tiene un verme.
Ne avverti l’interna indecisione.
Fischiare non si può: il rischio è perdere il bottino.
C’è dunque da chiamare senza voce, con segni e gesti forse da inventare.

D’un tratto ci si sente merli dal fischio imploso.
Sospesi sul ramo di eterne privazioni.
La vita nel becco, con la sua paglia di tempo e il suo filo di miele.

Si vive di esiguità.

E la voce per dirlo trova un nodo.