• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

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La bambina dello zucchero

21 domenica Set 2008

Posted by colfavoredellenebbie in margini, storie di seconda mano

≈ 77 commenti

La bambina non sapeva dove stare.
Sarebbe  salita volentieri per  quelle scale di  marmo così bianco  e ci sarebbe scesa, facendosele tutte col didietro, gradino per gradino: sentire il freddo liscio sulle gambe e passare  la mano sui ferri  di  ringhiera.
Ma  la casa  era grande  e  non la conosceva.
E poi  l’Armida s’era raccomandata tanto. Ferma,  doveva  stare  ferma. E zitta. E non chiedere niente: sua mamma sposava, finalmente.

Erano arrivate la mattina presto, sul furgone di Bindo, loro due: i fagotti della dote,  con la mezza dozzina di lenzuola, il  paletò di nozze per la sposa e la sottana nuova, sua, col bordo di passamaneria, due giri tutt’intorno.
L’Armida era restata a casa, forse per via del suo grembiule vecchio, pensava  la bambina.

Alla bambina pareva cosa bella, questa del matrimonio.
Starete in una casa vera, anche col bagno, le diceva l’Armida, che aveva un suo modo quieto di  prenderle i capelli e di tirarli in treccia, assieme alle parole. E vedrai tutti i giorni tuo papà.
Ché, lei, suo papà, lo vedeva  solo la sera della festa, quando veniva lì, ai Torelli, a  parlare fitto con sua mamma, nella stanza chiusa. Per lei, c’era e non c’era: la prendeva in braccio qualche  volta, e la guardava in faccia, come nello specchio. La metteva giù e se ne andava via: sua mamma restava col nervoso e l’Armida piangeva.
Finiva a stare male, il giorno della festa.
La vecchia a dire disgraziata come me.
La giovane a lavare i piatti e  a sbatterli sul piano di graniglia, velenosa. A parlare col muro di una figlia senza nome e adesso...
Alla bambina veniva voglia di sapere chi era mai  quell’altra figlia senza nome, ché, lei, il suo, ce l’aveva eccome, con la luce dentro e forse anche le lucciole, e sapeva già scriverlo per terra, con il bastone di robinia dolce. Taceva, però, e ballava intorno alla tavola, in quella casa di donne e basta. Perché questo era da fare.

Poi una volta era arrivato ai Torelli suo papà e non era festa.
E’ morto, disse, ‘st’inverno ci si sposa, prima che nasca l’altro.

Quel giorno. Tutto pareva di silenzio lustro, nella  casa dov’erano arrivate: le porte con  la   cornice  intorno, gli specchi e le finestre  alte.
La bambina non sapeva dove stare.
Sua mamma di là, a puntarsi la veletta, il cappotto  poggiato sul divano: neanche una parola.
Suo papà nel bagno lì vicino, a infilare  la camicia bianca, e la vecchia mai vista, con la giacca in mano.
La  bambina scostò la porta del servizio e provò un sorriso, piccolino.
Va’ a prendere lo zucchero, di sopra, dentro l’armadio delle scale.  Per il caffè dei testimoni… disse la voce nuova.
La bambina salì le scale più presto che poteva: c’era da farsi voler bene.
Lo zucchero stava nel vaso grosso: meglio prenderlo con tutte e due le mani, a costo di far senza  ringhiera.

Le scale di marmo così bianco diventano burro,  all’improvviso, o  lacci traditori.
Lo zucchero per terra brillava in mezzo ai vetri.
Un luccichio a punte.
Alla bambina  tornò, come un sapore agro, la storia bella dell’Armida.
La contava di sera, quando il sonno tardava e il vapore fermava sul muro la forma dei mattoni.
Storia di principessa e granellini, il dono delle fate. Da non sciupare mai, da tenere più cari  della vita: gli azzurri per l’acqua, i gialli per il sole, i bianchi per il bene. I bianchi per il bene.

Si mise a piangere, forte, col singhiozzo.
Lacrime di zucchero e di malinconia, di granellini scappati per le scale. Bianchi.
Tutti pensarono si fosse fatta male.

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Blog&Nuvole

15 lunedì Set 2008

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 41 commenti

C’è un’ idea bella in giro.
E leggera.
Infatti sa di nuvole e di parole.
Le nuvole sono il prestito di penne, matite e inchiostro: vengono dal cielo del fumetto, che sa essere cilindro di forme e altro.
Le parole arrivano dai monitor, a passi diversi, su filo di blog: da carte sottili, dunque, sempre sul punto di cancellarsi o di accartocciarsi, perché il vento della precarietà soffia in ogni direzione e disperde.
Ecco, ci voleva  qualcuno disposto a ‘trattenere’ per brevi tangenze questi transiti e ad annodarli: nuvole e blog, l’arte del fumetto e le incursioni della parola nei mondi possibili.
In una avventura nuova: questa qui

fusione tra scritture in rete e fumetto

(in)fusione di blogscrittura in fumetto
per togliere steccati e sciogliere confini

 Alcune schegge di scrittura sono state ‘adottate’ da artisti meravigliosi, per provare e dare il senso di cosa possa nascere da questo incontro fra segni che si (ri)conoscono e fanno un tratto di strada, insieme.
Per tutti, blogger e artisti del fumetto, un’occasione per un concorso sui generis.
Per me l’emozione di vedere, con altri occhi, questo micro ‘passaggio’:

Per dire

Per dire come sa essere la campagna, qui, occorrerebbero metri di filo steso, balle di stoffa spiegata e stirata con le mani, senza l’aria a fare gioco.
Bisognerebbe pensare in orizzontale, fermarsi allo strato più basso e scrivere scrivere scrivere su un’unica linea.
Pensare in piatto e in giallo, anche.
Perché pure il giallo è  orizzontale, qui.

Si è preso la terra.

Gronda nei fossi, come certo olio denso e lento, che cede alla forma delle cose, e costeggia la ferrovia, in uno slargo laterale: scorre in basso, senza slanci.
Se ne sta qui, borioso per un niente (un giallo da trombe sfiatate o cornucopie vuote).
Dove non ci sono i campi di granturco, restano solo, incerte e schiacciate, delle stoppie corte.

Pare essersi mangiato gli uomini, come formiche, e averli nascosti in questi rotoloni che hanno scorticato la buccia della terra per farne paglia.
Rotoloni metafisici.
Fitti, in linea d’aria con la pieve vecchia, in fila indiana lungo la ferrovia, in splendido isolamento e disordine al centro della campagna grande.
Silenziosi e stupefatti, lascito o pedaggio.
Sono un nuovo paesaggio d’attesa: disegnano radure e direzioni allo sguardo.
Fosse caduto il sole, potrebbero essere le sezioni robuste dei suoi raggi da polipo.
Fossero i tronchi di antiche colonne, potrebbero essere i resti di un tempio selvatico.
Sogno di un verticale cui dare forma.
Piace pensare alle preghiere che avrebbero accolto, mentre i cuculi battono gli anni da rincorrere sulle dita, per non perdere il conto.

Armando e Nerone

08 lunedì Set 2008

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 47 commenti

Bastava  un’imposta da  fermare o uno sfiato d’aria da  implorare al sonno, per aprire una finestra e vederli  camminare: Armando e Nerone, presi in eterni conversari e impennate di pause  teatrali.
In quello scuro che si lascia attraversare da brevi fenditure d’arancione: la brace di una sigaretta, un fiammifero di luce repentina…

Cosa avessero da andare e riandare, parlando tutta notte, restò uno dei misteri della Bassa.
Su e giù per i sentieri a pettine dell’argine, fino alla golena.
Su e giù  per  la via grande e per la piazza, per poi finire al cospetto dei Due Mori, quando pure gli ultimi nottambuli chiudevano giornata: le biciclette  incerte, nel pensiero del vino di domani.

Allora  le voci dei due  amici picchiavano nel buio, come le campane.

A ben sentire, la voce era una sola, tale quale il tocco che diceva l’ora.
Alta e massiccia,  sempre sopra il palco, a cercare la  luce del  lampione  e  il sìsì  di Nerone,  pubblico e applauso.

Anche una biscia sarebbe uscita rotta a costeggiare il lungo discorso dell’Armando, che prendeva nell’ansa del suo giro ogni muro, ogni siepe a marca di cortile, ogni biolca di terra del paese.
Qui c’è bisogno di una strada vera, diceva al  suo  compagno, una strada che si faccia corta e larga, per arrivare svelta. C’è da tagliare  giù per  la campagna, stringere la corte, quella a squadra, e poi andare dritti, oltre il loghino…
Le  braccia si aprivano nel gesto per spiegare meglio il suo  pensiero.
E  le mani disegnavano le mappe,  carte notturne di transiti nuovi, per passi di sogno e di leone.

C’è che le idee nascevano al mattino, nel caseificio o nella porcilaia,  ma solo la  notte  si scioglievano in parole,  che l’Armando allargava, tirava per la giacca e  portava  dove voleva lui.
In città, soprattutto.
Perché  quella era la meta della strada: la città coricata di  pianura, morbida  e  lenta. Coi  negozi di pantaloni bianchi e panama con la  tesa larga, i tavolini messi sulla piazza, col vermouth fermo nei  bicchieri: discorsi e quiete chiacchierate sotto i portici con la  pietra vecchia, fra i mediatori di tutta la  provincia.

Ma ogni  città   sarebbe andata  bene, coi  suoi odori di macchina  e petrolio…
La città era fedele morgana di ogni giorno, il senso del pane e del lavoro.
Di notte sembrava più vicina: come un amore, da cercare e vivere dal nome.

Le donne coi nomi di città son sempre le più belle, e le censiva, con l’aiuto di Nerone, sotto il fico fiorone dell’Ernesto: la Roma, l’Ancona, la Ginevra, la Parisina…

Forse pensando alla sua Zara, chiara come una piazza sotto il sole, l’Armando salutava il suo compagno con un  A n’in parlarem, che galleggiava in aria, promessa di altro tempo, parlato e vagabondo: inarcatura lasciata alle parole.
Un po’ come la  frutta raccolta verso sera, acconto e speranza della conserva buona.
Quella di un giorno che ha proprio da venire, fedele a questo pegno.

La chiesa

01 lunedì Set 2008

Posted by colfavoredellenebbie in margini

≈ 37 commenti

La chiesa venne su rossa fiammante, coi mattoni cotti  al fuoco, sotto il sole.
Dava le spalle alla fornace e ne pareva la continuazione: una vampa che si era fatta soda, una lingua di pietra tenuta dalla siepe. Con i trafori, ché i vuoti fanno luce.

Avevano tanto lavorato, i braccianti e anche i possidenti.
A fare malta e pietre, giù d’orario.
A tirar su i muri e a mettere di piatto il pavimento.
(I  disegni del mastro sotto il naso e i vecchi sotto l’ombra, a contare i giri di carriola.)
Nei giorni della stanca, quando la terra diventa tutta secca.
La canapa già a pìroli e mannelli.
Il granturco fermo a maturare.
E tempo avanti, ancora, per arare.

Tutto per portare dio anche lì: in un pezzo di terra di nessuno, in litigio pure col suo nome, un nome di maledizione. In mezzo ai fossi e alle piantate, alle biolche di medica e di grano.
E’ che si era stanchi di una chiesa a prestito, per sposare, nascere e morire.
Meglio sotto gli occhi del santo di borgata: la croce di ciliegio dell’Ulisse e le dalie dell’orto sull’altare, alto come il calvario o come il sacrificio. Con la sua bella tovaglia ricamata.

Si sperava fosse un matrimonio ad aprire le porte della chiesa.
O un battesimo, con l’acqua nella conca nuova.
Invece.
Morì il vecchio Berto, che si fece controvoglia la navata intiera, nel saluto di un prete grande e grosso, dal passo contadino e l’orapronobis mangiato troppo in fretta.

La cosa sembrò di segno strano: un inizio partito dalla fine e con quel vento che veniva dal cortile, alitate di fornace a pizzicare  il naso, ad aggricciare gli occhi.

Sul piazzale il lavoro continuava. Non bastava morire per fermarlo.
Così il caldo soffiato nella volta, fra i mattoni crudi ad asciugare, usciva dal camino, sbatteva contro il cielo basso e poi tornava giù, a fare da condanna, a diventare  fumo fra la gente, nella chiesa.

Il fazzoletto stretto sulla faccia, la Palmira se ne stava immagonata, con l’anima che voleva uscire dalla bocca, insieme  coi singhiozzi tamponati.
No no,  si sarebbe pensata no che fosse proprio Berto suomarito  a passare per primo fra quei banchi, lui che, la messa, neanche la sapeva e metteva lo straccio rosso attorno al collo, il giorno del comizio.
Ma che male farà, una benedizione, si consolava per questo tradimento.
Levò gli occhi verso il parroco per trovare  conforto: due dita in aria, don Enzo andava a benedire, eppure  aveva una smorfia sulle labbra.
Non era una smorfia: era una risata.
Rideva, il prete. Lo sguardo un po’ smarrito.
E rideva l’Ulisse. Rideva la Celesta.  Rideva anche l’Argia: tutta la borgata rideva sottovoce, in chiesa, durante  il funerale.

La  Palmira si liberò la bocca e tirò su, forte, con il naso.
Allora capì, perché tornò bambina, quando sua mamma le faceva il grattino sotto i piedi, il  solletico sulla carne viva, e il riso le saliva per la gola  ed era  come i grilli, una colonia di grilli che nessuno sapeva più fermare.
Rise anche lei, che altro mai poteva. Come se a ridere fosse la sua pelle.

Quel riso a pioggia e a serpentina: scherzi  del canuin, degli scarti  di canapa  bruciati  alla  fornace  e  soffiati contro  il  cielo  dal camino.

Scosse la testa più leggera, la  Palmira, e pensò che questo fosse un bene, la bonaria vendetta del suo uomo.

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