La bambina non sapeva dove stare.
Sarebbe  salita volentieri per  quelle scale di  marmo così bianco  e ci sarebbe scesa, facendosele tutte col didietro, gradino per gradino: sentire il freddo liscio sulle gambe e passare  la mano sui ferri  di  ringhiera.
Ma  la casa  era grande  e  non la conosceva.
E poi  l’Armida s’era raccomandata tanto. Ferma,  doveva  stare  ferma. E zitta. E non chiedere niente: sua mamma sposava, finalmente.

Erano arrivate la mattina presto, sul furgone di Bindo, loro due: i fagotti della dote,  con la mezza dozzina di lenzuola, il  paletò di nozze per la sposa e la sottana nuova, sua, col bordo di passamaneria, due giri tutt’intorno.
L’Armida era restata a casa, forse per via del suo grembiule vecchio, pensava  la bambina.

Alla bambina pareva cosa bella, questa del matrimonio.
Starete in una casa vera, anche col bagno, le diceva l’Armida, che aveva un suo modo quieto di  prenderle i capelli e di tirarli in treccia, assieme alle parole. E vedrai tutti i giorni tuo papà.
Ché, lei, suo papà, lo vedeva  solo la sera della festa, quando veniva lì, ai Torelli, a  parlare fitto con sua mamma, nella stanza chiusa. Per lei, c’era e non c’era: la prendeva in braccio qualche  volta, e la guardava in faccia, come nello specchio. La metteva giù e se ne andava via: sua mamma restava col nervoso e l’Armida piangeva.
Finiva a stare male, il giorno della festa.
La vecchia a dire disgraziata come me.
La giovane a lavare i piatti e  a sbatterli sul piano di graniglia, velenosa. A parlare col muro di una figlia senza nome e adesso...
Alla bambina veniva voglia di sapere chi era mai  quell’altra figlia senza nome, ché, lei, il suo, ce l’aveva eccome, con la luce dentro e forse anche le lucciole, e sapeva già scriverlo per terra, con il bastone di robinia dolce. Taceva, però, e ballava intorno alla tavola, in quella casa di donne e basta. Perché questo era da fare.

Poi una volta era arrivato ai Torelli suo papà e non era festa.
E’ morto, disse, ‘st’inverno ci si sposa, prima che nasca l’altro.

Quel giorno. Tutto pareva di silenzio lustro, nella  casa dov’erano arrivate: le porte con  la   cornice  intorno, gli specchi e le finestre  alte.
La bambina non sapeva dove stare.
Sua mamma di là, a puntarsi la veletta, il cappotto  poggiato sul divano: neanche una parola.
Suo papà nel bagno lì vicino, a infilare  la camicia bianca, e la vecchia mai vista, con la giacca in mano.
La  bambina scostò la porta del servizio e provò un sorriso, piccolino.
Va’ a prendere lo zucchero, di sopra, dentro l’armadio delle scale.  Per il caffè dei testimoni… disse la voce nuova.
La bambina salì le scale più presto che poteva: c’era da farsi voler bene.
Lo zucchero stava nel vaso grosso: meglio prenderlo con tutte e due le mani, a costo di far senza  ringhiera.

Le scale di marmo così bianco diventano burro,  all’improvviso, o  lacci traditori.
Lo zucchero per terra brillava in mezzo ai vetri.
Un luccichio a punte.
Alla bambina  tornò, come un sapore agro, la storia bella dell’Armida.
La contava di sera, quando il sonno tardava e il vapore fermava sul muro la forma dei mattoni.
Storia di principessa e granellini, il dono delle fate. Da non sciupare mai, da tenere più cari  della vita: gli azzurri per l’acqua, i gialli per il sole, i bianchi per il bene. I bianchi per il bene.

Si mise a piangere, forte, col singhiozzo.
Lacrime di zucchero e di malinconia, di granellini scappati per le scale. Bianchi.
Tutti pensarono si fosse fatta male.