• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: febbraio 2009

La bambina dello spirù

18 mercoledì Feb 2009

Posted by colfavoredellenebbie in storie di seconda mano

≈ 41 commenti

La porta era già socchiusa, ché la luce avesse da arrivare non dritta e presuntuosa,  ma corretta dalla sbiecatura.
Dimmelo ancora, disse la bambina.
Non le bastava l’orma delle braci, capace d’indugiare sul lenzuolo: un caldo di legno e di camino.
Allora la madre tornò indietro, per sedersi a bordo letto e carezzarle la mano.
Manina bella manina, cos’ hai mangiato stamattina?
La bambina si gustava il solletico  che sarebbe arrivato di lì a poco. In punta di unghia. Sul palmo.
Polenta e grassiiina, grata grata furmaiiina.
La bambina ritirò la mano con la risata arricciata in gola, da non poter resistere un attimo di più.
Poi girò il fianco, a prendersi il lenzuolo addosso.
E il respiro, che si scioglieva piano, veniva ormai dal sonno e dal tepore, lungo.

La svegliò il silenzio, quello fermo e compatto della notte fonda, quando la civetta non sfrangia più le ore e nella strada non gira il grido della luna.

Fu come sentirsi il buio tutto addosso, un’ala pesante, densa di nerume: le gambe di ferro, lente da spostare,  e in bocca il sapore un po’ di terra secca.
Neanche una spera d’arancione, la porta chiusa per colpa di chi mai.

Le venne da chiamare forte e farsi prender su, ma il buio le grattava in gola e la voce non voleva più arrivare, chiusa in un guscio chissà dove.

Allora invitò il suo braccio, da sotto la coperta.
C’era da toccare tutti i tasti neri, per suonare l’aria con le dita.
Per scantare le gambe, che parevano lontane, nei paesi più freddi di quel letto.

Strano trovarlo morbido, il buio.
E tiepido, e senza ragnatele.
Un buio d’acqua: quella dell’estate, scaldata al sole dentro la mastella, con lo zinco che diventava argento.
C’era da farsi legno o scaglia di sapone o palla di neve del viburno, e galleggiare lenta.
O forse formica avventurosa, lungo i bordi di metallo caldo.

Bella, la confidenza con il buio d’acqua, tutto tentato con le mani, tutto suonato con le mani…

Così la musica arrivò, di squilli e fisarmoniche, con le parole piene di sonagli…

Arrivò su coda di scoiattolo, con valzer ballerino.

Allo spirù risposero le gambe.
Un po’ su  Un po’ giù.
E i fianchi si mossero nel letto, finchè il lenzuolo fu tutto un ingarbuglio.
Un po’ su  Un po’ giù.
Che bello fare lo spirù
Adesso si poteva anche cantare,  perché la voce si trovava bene  nel buio acceso di trilli e piroette.

Si mise a ridere da sola, poi lasciò che il sonno spegnesse  tutti i passi, tutti i suoni.
Ad uno ad ù.

 

(dedicato ad Anna dello spirù, con affetto)

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Cine

11 mercoledì Feb 2009

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 31 commenti

Si andava il martedì, al Verdi: doppia visione.
Prima, o un drammone d’amore o un filmino alla doris day, roba di sentimenti, insomma, e, poi, al secondo turno, l’azione: o un film di guerra o un western o un mitologico pieno di sansoni.

Si andava, comparto femminile di casa, sdegnosamente assente il nonno: amava solo ernest borgnine o e.g.robinson (perché avevano la faccia da bulldog) e se ne restava in salotto col bambino piccolo: con noi l’unica compagnia maschile del Bigio, il gatto grigio, che prendeva la scorciatoia della ferrovia, quella della stazione porto, e ci aspettava davanti al cinema.

Il Verdi era un teatrone senza gloria e senza bellezza, senza boria e senza finezza.

D’estate si sfiatava nell’estivo, sul retro: un giardino con le sedie ballerine piantate davanti al muro bianco. Il proiettore, disposto nel camerino delle gazzose, fra le mastelle piene di ghiaccio, lo animava di vita propria, con figure incrinate da rughe di crepe.
Le parole svaporavano, facendo il giro del giardino, passavano per le bocche dei portoghesi, affacciati alle finestre delle case intorno, e ritornavano sulla platea, che non stava mai zitta di suo.

A settembre il Verdi ritornava in casa.

A noi piaceva andare al cinema nelle prime sere fresche, quando si usciva col golfino, e si entrava nel tepore del teatro, senza preoccupazioni sulla durata: tanto le scuole mica erano cominciate e la Diana aveva già dato i suoi esami.  Pure quelli senza gloria e senza bellezza, senza infamia e senza lode, predicava mianonna, che usava i “senza” per spiegare ogni cosa, in un mondo raccontato per continue sottrazioni.

Mianonna camminava lenta, sottobraccio alle nuore, a cui non pareva vero di uscire la sera.
Dietro, io e la Diana.
La Diana tutta garrula, perché sicuramente avrebbe visto i suoi belli, qualche fila più sotto. Io con la sensazione che qualcosa doveva pure accadere.

“E tu ce li hai i morosi?” – mi chiedeva piano, miacugina.
Certo che li avevo, solo non avevo ancora capito che “moroso” è una parola reciproca e non richiede  solo un’andata, ma anche il ritorno.
Piena di morosi a una sola andata, ero.
Alla Diana, niente, non dicevo proprio niente. Però ridevo, perché era più semplice ridere, in quel tratto breve fra la casa e il Verdi, coi pensieri già al cine doppio, alla gente, alla disposizione dei posti, ai beni di conforto.

Sì, perché non si dà cine senza beni di conforto.

All’ingresso del cine stavano i due baluardi dei beni di conforto, a cui si riservavano le monete della settimana: uno piccolo e uno grande, uno chiacchierone l’altro muto, uno compagno l’altro democristiano, uno a sinistra del Verdi l’altro a destra, uno venditore di brustoline secche e d’un sapore di legno bruciato e l’altro venditore di ceci lessi, tristemente pallidi, spesso freddini e un poco umido-collosi in superficie.

Per motivi politico-gustativi si optava per le brustoline, con qualche ripensamento, qualche vacillamento di fede, quando le si trovava così salate, ma così salate: piccoli semi di zucca incrostati di cristalli, tiepidi tiepidi, che – e fu scoperta poco digeribile – covavano sempre al caldo, nell’ultimo sportellino in basso della cucina economica, in cartocci di carta da giornale, assieme alle pantofole.

Con le tasche piene di brustoline, ogni film, col sottofondo di un sommesso crocchiare anti-chiacchiera, diventava bellissimo, anche se il cinemascope usciva dallo schermo e si imprimeva su mattoni larghi.

Era bello vedere i baci, sbiecando di sottecchi miamamma per sapere se mi osservava mentre li guardavo, era bello ascoltare le parole d’amore, mentre le donne di casa tiravano su col naso, era bello sentire il calore della sala che pareva una carezza col sospiro.

Si usciva un po’ intorpidite, strette, così ci si faceva tepore, a chiacchierare fitto di nomi storpiati e costellati di “et vist…”

La Diana era muta, persa in chissà quali sogni.

Il Bigio andava avanti e indietro, a intrappolarsi fra le gambe.

Io mi passavo un dito sulle labbra….Un bacio avrebbe fatto quell’effetto lì?
Forse, chissà, sotto la luna.

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