La porta era già socchiusa, ché la luce avesse da arrivare non dritta e presuntuosa, ma corretta dalla sbiecatura.
Dimmelo ancora, disse la bambina.
Non le bastava l’orma delle braci, capace d’indugiare sul lenzuolo: un caldo di legno e di camino.
Allora la madre tornò indietro, per sedersi a bordo letto e carezzarle la mano.
Manina bella manina, cos’ hai mangiato stamattina?
La bambina si gustava il solletico che sarebbe arrivato di lì a poco. In punta di unghia. Sul palmo.
Polenta e grassiiina, grata grata furmaiiina.
La bambina ritirò la mano con la risata arricciata in gola, da non poter resistere un attimo di più.
Poi girò il fianco, a prendersi il lenzuolo addosso.
E il respiro, che si scioglieva piano, veniva ormai dal sonno e dal tepore, lungo.
La svegliò il silenzio, quello fermo e compatto della notte fonda, quando la civetta non sfrangia più le ore e nella strada non gira il grido della luna.
Fu come sentirsi il buio tutto addosso, un’ala pesante, densa di nerume: le gambe di ferro, lente da spostare, e in bocca il sapore un po’ di terra secca.
Neanche una spera d’arancione, la porta chiusa per colpa di chi mai.
Le venne da chiamare forte e farsi prender su, ma il buio le grattava in gola e la voce non voleva più arrivare, chiusa in un guscio chissà dove.
Allora invitò il suo braccio, da sotto la coperta.
C’era da toccare tutti i tasti neri, per suonare l’aria con le dita.
Per scantare le gambe, che parevano lontane, nei paesi più freddi di quel letto.
Strano trovarlo morbido, il buio.
E tiepido, e senza ragnatele.
Un buio d’acqua: quella dell’estate, scaldata al sole dentro la mastella, con lo zinco che diventava argento.
C’era da farsi legno o scaglia di sapone o palla di neve del viburno, e galleggiare lenta.
O forse formica avventurosa, lungo i bordi di metallo caldo.
Bella, la confidenza con il buio d’acqua, tutto tentato con le mani, tutto suonato con le mani…
Così la musica arrivò, di squilli e fisarmoniche, con le parole piene di sonagli…
Arrivò su coda di scoiattolo, con valzer ballerino.
Allo spirù risposero le gambe.
Un po’ su Un po’ giù.
E i fianchi si mossero nel letto, finchè il lenzuolo fu tutto un ingarbuglio.
Un po’ su Un po’ giù.
Che bello fare lo spirù
Adesso si poteva anche cantare, perché la voce si trovava bene nel buio acceso di trilli e piroette.
Si mise a ridere da sola, poi lasciò che il sonno spegnesse tutti i passi, tutti i suoni.
Ad uno ad ù.
(dedicato ad Anna dello spirù, con affetto)