Sono tornati i dialoghi dei merli.
Li sento alle spalle, intenti in lunghi conversari.
Riconosco la voce del mattino, che ci sveglia con piglio impenitente, supplente almeno più gradito dei gorgogli di tortore a singhiozzo.

Ma ora, ora c’è tutto un modulare che sa di protezione: un uscire e un tornare dentro il nido, garbuglio di fili piumati e di cortecce, che indovino fra la madresilvia.
(Fiorita, con l’odore buono del sole, scioglie al tramonto un sentore che ricorda la vaniglia)

Mi viene da pensare che i nidi già spariscono, nel breve.
Non si vedono più, velati dalle foglie.

C’è una quercia, fuori dal paese.
Coi rami che si aprono, globosi, gonfi degli umori del caldo che trattiene.
Verde e piena.
Nel freddo di febbraio, tutta disossata, pareva un condominio di cornacchie, di gazze e di ghiandaie (ché gli scriccioli cercano le siepi).
Nidi di coppe e di altarini, alcuni aperti e come traboccanti, altri protetti da cupole di creste, gelosi ed introversi: sospesi come cuori, all’incrocio di rami e di destini.

Hanno questo modo gli alberi, d’inverno, per svelare interamente il loro amore.
Nei giorni lunghi, invece, chiamano a segreti di schiuse e nutrizioni, con promesse di ombra e di frescura.
Tornano al chiuso, i nidi: fuori restano i voli.

Come certi dolori che camminano all’indietro per trovare uno slargo silenzioso: qualcosa nascerà, di buono. All’esterno lasciano, intanto, l’ostaggio di un sorriso, appena più pensoso.