• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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Archivi Mensili: febbraio 2010

La Nina

26 venerdì Feb 2010

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≈ 31 commenti

Aveva cominciato con un barattolo di cannellini, bianchi.
Verso febbraio.
(Sono già contorno, con un po’ di cipolla trita e un niente di prezzemolo. Una goccia d’aceto. Meglio averne in casa, di fagioli, ché, tanto, cosa fa un barattolo in più nella dispensa?)
Poi erano arrivati i tegolini. Di carciofi un vaso solo.
E gli asparagi, che parevano patiti, di colorito chiaro. Nei barattoli con la fascia incollata.
Erano arrivati i fogli sui ripiani, perché i tesori vogliono accoglienza.
Una carta fiorita di giaggioli: un quadro a fare da tappeto a fondi di olive in salamoia, a piselli di provata tenerezza e a quel tonno rosa, un fiore di mare sotto l’olio.
S’impilavano giusti, a meraviglia, barattoli e lattine.
Se li guardava, la Nina, con occhio adoratore.
Così bella la dispensa, con le assi in scala e la finestra piccolina: non per la luce, ma per l’occhiata sul giardino di cemento, un’occhiata sola, fra la rete fitta.
Qui non è casa e non è cortile, pensava.
Nel cortile c’era da rispondere: allora come va la schiena? paura, la sera? e lui, avrà ben telefonato?
In casa, tanto posto vuoto. Il divano sfondato da una parte.
C’era da tirar via lo sguardo dalle ciabatte sotto il comodino, dall’altra parte del letto.

La dispensa era un’altra cosa, con la porta là in fondo al corridoio: bianca con la maniglia ottone.
Stare lì dentro, questo le piaceva.
Stare lì dentro e poi guardare i fiori, fuori: col primo caldo s’erano aperti i gerani doppi, a edera (all’ombra stanno così bene, tutte le foglie lustre). Di un rosso vicino al ciclamino, un piattino scheggiato per di sotto. E c’era la latta grande, di tonno del mercato, piena di terra grassa e di miserie pendule.
Cose da cartoline, lo sapeva.
Stare lì dentro e poi contare le sue scorte: le bottiglie di olio, le zucchine sposate alle carote, ben tagliate, anche se l’artrite…E pensare che all’estate mancava così poco. Ah cos’era mai l’estate, con tutte le verdure in giardiniera. Scottare l’aceto, giusto una salata, poi buttare cavolfiore e peperoni, sedano e cornetti. Ci voleva niente. Ci sarebbero stati i vetri opachi di bollore (la salsa fatta in casa, con quel caldo).

Si poteva far bella figura.
Si doveva far bella figura.
Il figlio aveva detto sì, st’ estate vengo, ché sei lì da sola.
Bisognava ben dargli da mangiare.
Che non mancasse niente a quel figlio fatto tardi e partito così presto. Quasi per dispetto.
Il vecchio non l’aveva perdonato. C’era da andare proprio là, a Milano? In una fabbrica a respirar vernice?
Ed era morto ancora impermalito: mai al telefono a sentire la sua voce, neanche al matrimonio in municipio, nella Milano fredda dell’Alzaia. (Ma si può? A casa neppure per sposarsi? Allora, non venga nemmeno al funerale).
La Nina muta in mezzo a tanto gelo.

Ma adesso, adesso bisognava preparare. La stanza del mezzo letto come prima, le cose pronte, a posto sulle assi, in quel bell’ordine pulito.
L’estate durò poco. Mangiata dalla febbre del bambino. Le ferie d’agosto andate su, per il camino.
Magari per Natale.

Pasta. Ora serviva della pasta. Quell’inverno, alla Nina tornò il piacere del mercato: scegliere tele sottili per farne dei sacchetti. Un colpo con la Singer, lungo i lati. Due cuciture due.
C’era più gusto a maneggiare grattini e pasta puglia. Mezze penne, conchiglie e quadrettini. Era quasi come cucinare: tagliare con le forbici i pacchetti, travasare i grani tutti uguali, sentirli con le mani cadere nella tela, come i giorni passati nell’attesa.
Nella tela la pasta un po’ respira, anche il riso si trova a casa sua.
Tanti sacchetti, in fila sulle assi, con il collo chiuso.
Il figlio ascoltò i suoi passi d’uomo fatto, lungo il corridoio. Piastrelle di graniglia, ancora un po’ incerate.
Guardò la tavola, nella cucina vuota. Il sole della Pasqua sapeva dir le cose.
Ci avevano pensato le vicine, a dargli una voce, così, proprio all’improvviso, in quel venerdì che era stato di passione.
Di corsa all’ospedale. Né presto né tardi. Nel momento.
Non c’era modo di venire prima.

Mancava l’ultima porta in fondo al corridoio.
L’aprì piano: fra pile di vasi e di sacchetti, una nuvola densa di farfalline grigie, ali pesanti, fredde e impolverate.
Un senso di ripugno, come ad entrare nel cuore di qualcuno.

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La Ginia

10 mercoledì Feb 2010

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 25 commenti

Il chierichetto imbambolato sbadigliava, coi ricordi della notte secchi ai bordi della bocca.
E il prete andava così in fretta che fece la croce benedetta con un dito, nello spazio stitico di un amen.
Si era sposata alle sei del mattino, col vento a rendere certi i contorni e stupite le cose.
Si era sposata con le gambe nude sulle scarpe.
E col vestito a fiori di sua madre. Di rasatello crema, le rose rosse che parevano dipinte: stretto in vita, la sottana ampia e il collo largo che girava torno torno. Tre bottoni d’osso a non nascondere il petto.
Ci aveva fatto la richiesta, sua madre, e non era stata fortunata, ché il suo uomo tanto suo non era: se l’era ripreso la suola delle scarpe, che sa  portare lontano, quando non si ha giudizio.

Solo quel vestito e neanche un parente della sua vecchia casa: voleva così la Ginia.
Arrivò alla chiesa che sapeva di gerani:  l’erba alle porte, in mezzo al granoturco.
Sul carretto del Doru: l’aveva aspettata sulla strada bianca dei Torelli, ché non ne avesse da far troppa a piedi. Poi lì, insieme, senza una parola.
Cosa c’era poi da dire.
Di cose se n’eran dette tante.

Al prete, che raccontava in piazza degli sposi muti e della chiesa vuota, si rispondeva con la stessa storia.
Cosa ci si poteva mai aspettare da una sfacciata che ne teneva in ballo tanti e sbatteva il suo bel no sul muso del padrone (come un cancello di ferro arrugginito), perché voleva il figlio, dio se lo voleva il figlio.
Come una matta. Come una stria. Come una gatta in estro.
Lo sapevan tutti: disposta ad andare nel frumento, a farsi trovare di sera in camporella, sulla spiaggia di Po che va nel bosco come una lingua, fra le zucche selvatiche e gli alberi in croce.
La testa se l’era persa, sì.
E lo sapevan tutti che il figlio del padrone la usava per dispetto al padre. E a casa si sarebbe portato l’altra, con le sue belle dozzine di lenzuola ricamate col gigliuccio, mica la Ginia con i piedi scalzi, scavsada sotto il sole a trapiantare.

E adesso… all’improvviso, lì, a sposarsi col pastore che poteva esserle padre. Quello della Ca’ triste, alla svolta  larga del fiume. Uno che tre mesi stava e tre mesi andava. In piazza mai. Come se i pioppi fossero meglio dei cristiani.

C’è che l’aveva vista piangere in boschina, come succede nelle fiabe agre.
Gridare persino con le unghie e picchiarsi la pancia con i pugni.
E le aveva dato uno straccio pulito. Con le pecore zitte lungo il braccio morto di fiume.

Ci sono gesti che parlano da soli.
Han strascicato dentro il senso di un mestiere e il pieno di un sentire. Anche uno straccio può essere carezza.

Si sposarono in tre e senza pentimento.

La Sibelia

03 mercoledì Feb 2010

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 17 commenti

S’avrebbe voglia di parole da infilare col refe, per la Sibelia: perline da fiera per farle una collana luccicosa.

E poi di parole tonde, così corrono meglio e finiscono fra le assi del pavimento e nella catena del pozzo, a scricchiolare e a cigolare, per un po’.
Parole con la musica dentro, magari con l’accento in testa, come un berretto: perché han da suonare chiare e mettersi in rima a far le buffe, in ogni angolo della corte.

Si vorrebbe cercarle nelle stie delle galline, dove restano certe piume di muta, che sono sospiri di chioccia.
O sulle creste dei pioppi, quando le foglie si fanno di vetro al primo gelo e crocchiano di galaverna.

Perché la Sibelia era la vecchia dei bambini. Con gli occhi inutilmente azzurri.

E parlava soltanto a filastrocca: nella sua bocca i giorni della merla, il cattivo tempo, il grano, i santi del paradiso e i fagioli finivano  in cantilene ripetute mille volte, a coprire ogni buco di tempo con lo stesso rammendo.

Perché la Sibelia era  la vecchia dei bambini. La vecchia dei bambini, dentro l’aia.

Piccola e ossuta, con le tasche piene di semi di zucca, bruciacchiati nel forno. Mai sposa, mai madre, mai niente, solo a rancurare i figli di tutti nella corte, perché le donne stessero quiete in campagna d’estate e nella stalla o al telaio d’inverno: senza la paura delle zampe dei cavalli  e dell’acqua ferma nell’abbeveratoio  e dei matti che portavano via le creature.

La Sibelia sempre lì, a cercare coi piccoli le uova fra le frasche, le tane dei grilli e dei rospi del signore.

A fare il verso del tacchino e del cuculo, a recitare le fole della scopa e della farina, dell’acqua e del fuoco e poi le canzoni con il fischio del vapore e la spada insanguinata.

A passare il calendario alla sua maniera, aspettando la stagione buona.

Par santa lùssia un cul ad gussia e par nadàl un pass ad gal.

Senza crescere mai, anche se i denti non c’erano più e la bocca fioriva all’indietro.

Ma le parole han solo bisogno di un filo di suono e di testa leggera.

E così, quando per san martino la trovarono riversa sul corach, a testa in giù, stecchita come certe zampe di faraona, coi semi di zucca a far da lacrime intorno, tutti pensarono che la Sibelia stesse cercando in mezzo ai pulcini un pezzo di filastrocca, un pio pio scappato dalla catenella.

Per colpa del vento.

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