(prima parte)
Un bicchiere di clinto, che la Gemma gli segnò in conto del prossimo fagiano o di un gobbo da mettere nel forno.
Uno schiocco di soddisfazione, per tenere più forte il sapore di fragola e di uva.
Una manata sul cappello, perché restasse ben calcato, lungo il viaggio.
E via. Verso Verona.
La schiena dritta, come da seduto, per ingannare gli anni almeno un poco, l’asciugamano fra il collo e la camicia bianca, il Bigio partiva anche quel giorno, prima di bassora, con la bicicletta dal manubrio largo: da Carbonarola, fin dove si poteva, cercava l’argine maestro.
Per rendere il tragitto più tranquillo e per guardare, intanto.
C’era la riva di Po, che si grinza nei rovi e nei sambuchi e dopo si sfilaccia, lunga, con le barene di sabbia chiara.
E c’era la terra: larga e piatta, coi quadri di stoppie stropicciate e di medica già al secondo taglio, spartiti dalle cavedagne di polvere battuta.
Pensa te al sudore che c’è dentro, si diceva ogni volta, pedalando.
Tutta fatica nostra. Tutta fatica vecchia. Rigulada zo.
E gli pareva di vederla scivolare giù, fra le crepe, in basso, insieme all’acqua e ai vermi.
Come la pioggia rossa, densa di calore.
Poca ne torna su, spiga o pannocchia, dritta come un fuso.
Lui lo sapeva che a volte resta al fondo, la fatica.
Addormentata dentro a una corteccia o presa in mezzo alle radici. Anche insabbiata, lungo Po. Castagna dolce d’acqua. La vita delle piante che si è fatta nera, carbone da bruciare se non c’è la legna. O trifola, che sa di fungo e nebbia.
Il Bigio lo intendeva, questo, perché aveva la pazienza del cercare, del chiedere soltanto a terra e a riva: tutto per un vivere selvatico, senza padroni e senza monsignori, fra gente con i nomi brevi e parole poche. Un vivere di sponda, di vita mai asciugata, come la battellina nera, ora sulla spiaggia, ora sotto riva a snidare la tinca nella melma e certo sanguinello, tenero all’intreccio.
Nella casa giù nella golena, magazzino e officina delle mani, con l’acqua che rigava i pioppi e soffiava nei giorni della piena.
Caccia, pesca, più spesso perizia di raccolta.
A quel suo vivere di sponda doveva pochi amici e un grande amore: non le malizie della vedova in cerca di radicchio, neanche la storia vecchia con la Jone (se una ci ha anche un mulino, crede che pure un uomo sia farina da comprare).
Un altro amore.
Con la casa vuota, senza mai una donna, senza dei bambini, neanche il cane che impreca alla catena, si sente bene il lamento dei fagiani, che si sgraziano al fondo della macchia, e il secco percuotere dei picchi, fra merli in chioccolìo o cince che fischiano dal basso.
Arriva il fragore d’ansa in sottofondo che succhia rauca l’acqua in gorghi e mulinelli e poi la fa girare e la sbatte contro i tronchi di golena.
Arriva la voce di pioppo e quella di rubilia, di salice che sfronda e frusta, di gelso a foglia larga che scartella.
Si sente ogni cosa, a favore di vento.
Passava delle sere ad ascoltare, il Bigio, con lo stare bene che non ha parole e neppure si riesce a raccontare: solo fischiava all’aria e al suo toscano, per stare dentro all’armonia.
Poi venne il Bindo.
Bindo col furgone, delle cose da vendere e comprare.
Il Bigio aveva fra le mani un tartufo che faceva gola, scovato al bivio dello stradello vecchio.
Dallo a me, che ti do una cosa, disse Bindo.
Lasciò un grammofono e qualche vecchio disco.
Esplose dentro la golena la voce di una donna: di vetro e di catena, alta su nidi e pioppi, alta sopra le anatre di passo.
E dentro c’era tutto: il vento e il ghiaccio, il fuoco e le stagioni, i mondi di margine e di fiume.
Con una forza che non è d’accetta: l’accetta attacca, spacca e squarcia con un colpo netto, come la falce. E neppure è quella del ramo che resiste, che tiene al vento e al frutto, nella sua pazienza.
Era la forza che scioglie la fatica nel lento risveglio delle vene, che accoglie la voglia di piangere del mondo e la ferma nell’angolo dell’occhio, in lacrime putine. La forza del bello in forma di dolcezza, amore che commuove e bacia dentro.
Tutto in una voce di vetro e di catena, e nelle altre che arrivarono fra i pioppi, all’appuntamento amoroso di ogni sera, barattato con cavagne di salice e canestri di mele campanine: arie di opera e romanze, con rane e grilli a raspare sotto. O soltanto nebbia.
Nuova felicità di compagnia.
All’Arena di Verona, andava il Bigio, in uno dei giorni più caldi dell’estate, quando le corti sono gialle per l’arsura e il clinto passa breve per la gola, poi resta sulla pelle a luccicare.
All’Opera, con l’agitazione buona nelle gambe e la voglia di musica nel petto.
In bicicletta, ripetendo le parole mandate a memoria senza scritto e solo mormorate sulla bocca, la musica ormai sotto la buccia, nella testa dive caste e gelide manine.
Ché un amore ha i suoi riti, impone fedeltà ed anche devozione: quattro ore, pedalate senza tregua, fra argini e contrade, quando Gino suonava nell’orchestra d’agosto e lo faceva entrare, confuso in mezzo al coro.
Dopo c’era da aspettare il buio, rannicchiato sopra ad un gradone, nello sbieco di un’ombra protettiva, la polenta mangiata quasi pranzo a nozze.
E quella fu la sera di Manon.
La sua Toti vista proprio in faccia, non solo pensata nei rami del cortile, la sua Toti che cantava scura e decisa come la lama della luna, la voce tornata al corpo e ai gesti, finalmente.
E Puccini da ogni parte, a prendere come un gorgo di Po o una spira di foglie e tramontana.
Per il Bigio fu un sentire grande, un ascoltare con il cuore a balzi.
Fu come fasciarsi la pelle di musica e di canto: dolce quanto lasciarsi andare all’acqua intiepidita nella mastella di zinco, sotto il sole, per un bagno che toglie sudore e fatica, la schiena appoggiata al bordo caldo.
Allora bisognava dire grazie, anche senza una lepre, anche senza un fagiano a rendere meno povere le mani.
E la Toti, davanti al vecchio adoratore, l’odore della vita tutto addosso, nel camerino di cipria e borotalco, capì che c’era da accogliere e da dare.
Il Bigio se ne andò col suo trofeo: una sciarpa, forse proprio un velo, ripiegata come una reliquia e messa da pettino, sotto la camicia.
Tornò senza sentire la fatica, senza ascoltare il lamento dei pedali.
Solo con quella contentezza liscia che quasi fa paura.
Ritrovato l’argine, lasciò che la ruota cercasse il binario di un solco amico e chiuse un poco gli occhi per cantare nella notte, adesso sì, a voce piena, senza paura di niente e di nessuno.
linodigianni ha detto:
Arriva la voce di pioppo e quella di rubilia, di salice che sfronda e frusta, di gelso a foglia larga che scartella.Si sente ogni cosa, a favore di vento. ( te, ed elia malago, avete ormai la voce del salice e della rubia, siete le battelline nere della narrativa)
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colfavoredellenebbie ha detto:
caro amico mio, c'è da mangiarne di crostini per reggere un confronto di un centimetro con la Elia :)))Un abbraccione
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linodigianni ha detto:
no, Zena, ti prego-i crostini no, non puoi-lo sai:-)
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colfavoredellenebbie ha detto:
dici,eh…grissini dietetici?
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Grizabella1 ha detto:
Un piacere da centellinare, come il vino buono. Ciao Zena.
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barchedicarta ha detto:
che io son felice come una pasqua appena passata meno il dolore, di averti letta incontrata bevuta sudata brividata con questo incedere lento come le acque di Po quando fa caldo e le zanzare ci bevono dentro e bevono anche noi, come un bicchiere di vin clinto, mia madre ne produce ancora, e questo uomo bello come tutti gli ialberi dell fiume che va a verona a veder l'opera mi ricorda mio padre che andava in bicicletta ad adria a vedersela fin da ragazzino, e io l'estate scorsa per la prima volta sono stata all'arena ho visto la tosca con mia mamma e quel calore dei gradoni me lo ricorderò in vita..dicevo che non ci sarei più tornata e invece vorrei vederne ancora di spetaccoli così. come questo racconto così poetico così ricco di parole nuove di una scrittura ricca che riempie il cuore tutto..devo ringraziarti Zena per tutto quello che scrivi è un dono prezioso che ci fai ogni volta…ti abbraccio sorella di Po
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mariateresasav ha detto:
Finisco di leggere e mi accorgo di avere negli occhi "le lacrime putine"Anche la tua scrittura ha in se' "La forza del bello in forma di dolcezza, amore che commuove e bacia dentro "
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elisnelpaese ha detto:
L'ho già detto!Anche a costo di rubare un titolo a Magris (che poi, per i titoli non v'è copyright) raccoglierei queste tue meravigliose storie in un volume: Microcosmi, ché ogni storia è un mondo a sé eppure ha il saporedi vita in comune con tutti gli altri personaggi che ci "racconti" così magistralmente.Un abbraccio.
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annaritav ha detto:
Ogni volta in cui ti leggo, sento profumi e odori e sapori, vedo colori e squarci. Mi vien da piangere di fronte a certe paginette striminzite che leggo, gonfie dell'onore della libreria, in confronto alla tua prosa poetica e densa di umori. Un abbraccio, che non è niente per regali di tal fatta.
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woodstock74 ha detto:
Mamma mia! Ma come fai?Questa frase mi ha messo un brivido di piacere:il clinto passa breve per la gola, poi resta sulla pelle a luccicare.
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marosit ha detto:
Quanto poco sappiamo, quanto poco si è detto di questa elementare capacità di accoglienza di una musica che si tende a (rap)presentare come parte di una cultura d'élite…Ecco, questo è un testo necessario. E tanto tanto bello.Ma proprio tanto.
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cicabu ha detto:
La musica che fa' breccia nel cuore di un uomo solitario e schivo..e la Toti (che piaceva tanto a mio papà) che gli fa' un regalo ….bellissimo…^^
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Atward ha detto:
Cara Zena, poco prima "d'la basora" (noi qui la scriviamo con una s sola e il profumo aspro (e non solo il profuno) di un bicchiere di clintòn, gentilmente offertomi da un collega, mi immergo nella piacevole rilettura di questo racconto: non ti si può leggere solo una volta, alla fine sembra proprio che il meglio venga con la lettura successiva. Ciao e un saluto a Linops: dobbiamo accordarci per il quando.
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amfortas ha detto:
Cara Zena, come potrai immaginare ho letto con particolare piacere ed interesse questa prima parte del tuo racconto.E pensare che quel bigio l'avevo inteso, di primo acchito, come prima persona del verbo bigiare.Vedi come i sentimenti "leggono" per noi?Perché ultimamente io bigio molto nella vita, forse perché sto assistendo alle ultime rappresentazioni di un Grande della mia vita e non mi voglio perdere neanche una nota, fosse pure stonata.Ciao.
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sistercesy ha detto:
lo so che mi ripeto,ma passare da Te è un tornare a Casa.come il Bigio me ne vado con un trofeo,quello di sentirmi dentro mille e mille emozioni,grazie amica mia
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colfavoredellenebbie ha detto:
§§cara Grizabella, mi sembrava un po' troppo lungo, questo racconto: allora l'ho ratealizzato, contando sulla vostra pazienza. Grazie, come sempre. E un saluto caro.§§cara Cristina dall'anima di Po, di clinto dovremo parlare, ché mio marito è disponibile ad una traversata di tutta la pianura, pur di trovarne. Ce n'è una penuria incredibile, perché, essendo così dotato di tannino, non è in commercio. E' praticamente un vino clandestino:). Ti abbraccio.§§cara Mariateresa, appena posso, infilo, fra le parole, quelle in dialetto che amo di più.Sono due: una è 'cria', per dire una quantità infinitamente piccola. Non c'è frattale che tenga: cria è la misura mantovana del micro e da sola costruisce un universo di bordi, di angoli, di schegge, di puntine (meglio se di grana!)…L'altra è 'putini'; perché contiene il grado di avanzamento del pianto: li putini (lo sappiano i non mantovani) sono le lacrime che non escono dagli occhi, restano bambine, appunto, a dare il senso di un immagonamento iniziale che ancora non si scioglie e prelude al pepul, a quel broncio che è piega amara… I bambini imparano subito a dosare il pianto, con riti preparatori: chi potrebbe resistere al loro dolore improvviso? Chi resiste, in realtà, al dolore dei bambini? Un caro saluto.
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colfavoredellenebbie ha detto:
§§cara Elis: tu sei troppo buona.In realtà io sono volutamente, assolutamente fuori moda.Volutamente.Volutamente scriverei solo di polvere e di muffa, perchè è nella costellazione di sabbie disgregate che ritrovo i miei mondi residuali.Un esercizio di vita che entra in tangenza con questo scrivere sottotraccia e coi pensieri. Ti saluto con affetto, cara amica.§§Anche tu, Annarita, sei troppo buona. Mi limito a seguire storie di piccola taglia:). Qui, nella bassa, è difficile incontrare altro:))))) Grazie per questo tuo regalo del tempo e un caro saluto.§§Barbara, il segreto è semplicissimo: basta berlo, il clinto, almeno una volta :))) …… il resto vien tutto da sè:))) Scherzo, eh, e ti ringrazio con un arrivederci anche in altre 'stanze'.
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colfavoredellenebbie ha detto:
§§carissima Marosit, ieri c'è stato bisogno di andare in campagna verso sero, in una casina che sai: c'era bisogno di decomprimere una giornata difficile, di 'pettinare' le idee e quanto altro. E c'era voglia di accogliere la musica delle cose: tu, con la tua macchina fotografica, l'avresti colta in tutta la sua polifonia, per l'opera lirica che contiene. Hai ragione, è questione di accoglienza. Per questo una musica apparentemente d'élite sa scatenare emozioni fortissime anche in persone molto semplici, che se ne lasciano attraversare. Esisteva davvero Bigio, sai, la cui verità piace raccontare alla mia maniera:) Un abbraccio.§§cara Cicabu: proprio così, proprio così. Mia mamma ancora ricorda come questo grande vecchio la trascinò con un gruppo di altri giovani del paese, da educare alla musica, all'Opera. Per la Toti, appunto. Ti saluto con affetto.§§Ehilà, dado:)) Ciao, carissimo: sono a debito di telefonata e a credito di notizie:))) Provvederemo, neh? Un saluto da portare in casa, ciaoooo.§§caro Amf, Bigio, Bigin sono le varianti dialettali del nome Luigi: mi piace considerarne il colore, anche. E' un nome che sta bene con le rughe e il grigio-azzurro dei capelli. Ti lascio un saluto d'affetto (no, non perdere neppure una nota, neanche la più stonata…)§§grazie, grazie, cara Cesy, e perdona le mie assenze: confido nell'ora nuova per guadagnare un po' di tempo in più. Un saluto grande e affettuoso.
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Grizabella1 ha detto:
Un saluto :)
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