• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: giugno 2010

Occhi di melanzana

29 martedì Giu 2010

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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Il sole era così schietto che le cose recuperavano confini netti, bordi puliti, senza l’ovatta del vapore.
Si stava bene con quel caldo buono, spostato dal vento sempre un poco più in là.
I grembiuli neri non si mettevano più, sparivano in certi armadi che noi bambini aprivamo non senza sospetto, con il timore (dissimulato a fischi e cantilene) che rotolassero fuori gli oggetti delle paure, le sagome nere, che racconti di nonne e zie ritagliavano fra fornelli e macchine da cucire… Bambini con facce di pelo matto nella culla, vecchie vendicative che chiedevano croste di formaggio alla porta e guai a non accontentarle, e gatte soffione, pronte a partorire fra pile di lenzuola e a graffiare chiunque le stanasse.
Gli armadi scuri anche questo tenevano ben chiuso, assieme all’odore di carta trascolorata e di profumo carezza.

I primi giorni di vacanza rintronavano nella testa, come un’otite mal guarita; nelle orecchie, smerigliati, i suoni della casa erano voci sirena in cui piano piano navigare.
Sparivano gli oggetti della scuola come per autocombustione e restava il TEMPO.
E tempo significava abile ripartizione di pacchetti di giorni: un po’ di qua, un po’ di là, in un roteare di prestiti a parenti che si raggiungevano col cuore sospeso e la vergogna degli approcci.

Ma c’era un tempo che si spendeva nella attesa delle partenze.
Quello, sì, mi piaceva: a scadenza, ma sfilacciato, leggero di programmi, un tempo con le vestine corte.
Scatola poco segreta di questo tempo era il viale, con bambini ad ogni casa, a spiare l’uscita del vicino, nelle ore del caldo, alibi per insistere “Vado fuori anch’io”. A giocare. E la pelle delle gambe faceva zviiiiig scollandosi dalla Frau, dove ogni giorno leggevo di Ercoli, Idre e Ninfe assortite, e scappavo fuori.
Il sonno era lasciato al resto della casa, che alle due si sgonfiava. Niente lavori, niente rumori, solo l’odore della conserva, a memoria di un ragù che aveva lasciato soddisfatta la tavola.

Le fughe si consumano sempre nel silenzio e si portano dietro il profumo di un luogo.

All’uscita il caldo ti prendeva chiaro, come una persona amica, con l’invadenza di un abbraccio che gratta un po’ la pelle.
“Dai, che andiamo alla stazione-porto”.
La repubblica delle bambine – per un sotterraneo sincronizzato tam tam – era già lì, con la sua gerarchia di capi e la sua mappa di luoghi.
I maschi del viale, sogguardati e respinti di giorno, venivano buoni solo verso sera, quando, tutto rilavato, il mondo bambino tornava giù in strada, per altri giochi più quieti.
E poi, chi li voleva i maschi? C’era quello lungo che diceva a tutte “mutanda del mio cuore” e io scappavo in casa rabbiosa dalla ziasarta: “le voglie lunghe, le sottane, le voglio lunghe….”
Alla stazione-porto i maschi non ci venivano.
Dentro il magazzino, su scale di cassette per cipolle, in un leggero svolettare di bucce residue d’oro rosso, viveva, ben organizzato, il condominio delle bambine.
Orma di casa, fetta di casa, in cui recitare il teatro dei ruoli.
Su e giù , fra appartamenti ampi e stretti, panoramici ed oscuri, secondo regole di potere e di agilità: le grandi comandavano e le piccole ubbidivano….
Le grandi davano la trama del gioco.

Quel giorno la bionda, forte dei suoi undici anni, aveva l’ inquietudine di chi le ha appena prese e si muoveva sui suoi sandali a strisce marrone- modello S. Francesco, come se le gambe lunghe fossero molle a scatto.
Io, nonostante i sandali, la rispettavo molto, e un po’ la temevo, per certe storie che mi raccontava, di vecchie col pelo matto in faccia che uscivano di sera a portar via i bambini,con la scusa di guardare i gerani delle case.

“La prova, – cominciò ad urlare, davanti alla stazione porto, col suo bel sagrato lastricato da cipolle marce- ci vuole la prova per entrare qui dentro. Le piccole devono prendere una lucertola e staccarle la coda”.
Le altre grandi ridevano e si davano delle arie.
Le piccole non fiatarono, per darsi un contegno, anzi corsero via, verso il muretto miniera di lucertole.

Io stavo lì, a darmi della stupida per essere uscita di casa: avrei potuto finire la storia di Io, trasformata in mucca, e invece dovevo prendere le lucertole, che, fra l’altro, mi erano anche simpatiche.
Non erano come i rospi, loro, che, se facevano la pipì negli occhi – diceva mia nonna –facevano diventar cieca la gente.
Ma come facevano poi a centrare proprio gli occhi della gente?

Non mi muovevo.
Davanti agli occhi vedevo la pancia giallo- molliccia delle lucertole e la coda a tergicristallo e le zampe.
Sicuramente avevano gli artigli e graffiavano e forse la pipì la facevano anche loro.

“Dai, muoviti fifona che qui dentro non ci vieni più…”

Le grandi mi parevano odiose, là con le gambe a penzoloni dalla finestra – ingresso per il paradiso.
“Stateci voi, lì dentro, che fa schifo e puzza. Non ci vengo, io. Tanto domani vado via. OCCHI DI MELANZANAAA!!”
E scappai, lasciando nella scia l’offesa più brutta.
Visto che li avevo, li odiavo gli occhi scuri, e, segretamente, continuavo a guardare in alto, appena potevo. Se a fissare il sole ci si abbronza, a fissare l’azzurro qualcosa dovrà pur succedere.

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Di argini e formaggi (e biciclette)

20 domenica Giu 2010

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 22 commenti

Parallele alle avventure di pesca di mio padre si davano, col tempo buono, le scorribande mie e di mio nonno, sull’argine, pigre e cadenzate dal fischiettare fra i denti.
Con mio nonno si era sempre dentro a una faccenda che sembrava una fiaba o giù di lì, e io non sapevo se, le cose, le diceva per davvero o per gioco.
Non sapevo neanche se le parole che usava esistevano o se le tirava fuori dalla giacca, insieme ai foglietti tinti di segni verdi.
E forse proprio quell’ incertezza era la cosa fra noi.

L’argine di aprile aveva increspature leggere di gramigna e le prime roselline di radicchio selvatico. Aveva l’odore della maggiorana, che è di menta fiorita fra mele verdi.
E un’aria così leggera, ma così leggera.

Si andava di pomeriggio e io reggevo la sua cartuccia di pelle, in cui, lucidi e ben puliti, stavano gli strumenti della visita.
Mio nonno faceva il mediatore dì formaggi e ne era il medico, l ‘annusatore, l’ascoltatore, l’assaggiatore, anche.
Al caseificio della palazzina si arrivava prendendo la strada lunga, perché tutto doveva avere il sapore del mistero.

“Ci sarà aperto al caseificio?”-chiedevo, per avviare il gioco.
“Mah. Se la porta sarà chiusa, canteremo la filastrocca della porta che si apre, dell’acqua che bagna, del forno che cuoce, della scopa che spazza….”, e tutte le cose del mondo affioravano, allora, a vestire l’argine di Po e a muoverlo in infinite azioni….
“E se non si apre?”
“Se la porta non si apre, andremo a cercare la topina delle sette chiavi….”
“Ma sta nel fosso e le sette chiavi son attaccate alla coda” – continuavo io – “E se non troviamo la topina??”
“Inventiamo la parola magica per aprire la porta.”
“Per me è “spalanca la bocca “….
E spalancalaboccaspalancalaboccaspalancalabocca diventava, ripetuto mille volte, una biscia di suoni senza capo né coda.

Si arrivava al caseificio a porte spalancate, senza cancello senza chiavistello, e si attraversava la sala dove la caldaia rossa cuoceva. Nell’altra stanza i formaggi giovani venivano messi nello stampo e rifilati.
Si apriva la camera chiusa, col catenaccio rugginoso che sfregava.
Il buio.
Per un momento solo il buio, perché lì i formaggi covavano, nella loro scorza nera, un po’ unta e un po’ cerosa.
Poi la stanza, con la luce della porta, guadagnava in altezza e in profondità: sulle assi le forme di grana si arrampicavano fino al soffitto, tutte uguali, in attesa del responso.

Se prima mio nonno mi sembrava un bel vecchio, con il cappello inclinato, adesso era un giocoliere ballerino, che faceva prillare una forma sulle mani, per saggiare la salute dell’intera partita, e la faceva suonare picchiettandola con le nocche e la trivellava piano, per annusare l’odore della polpa e infine la tassellava, estraendo dalla pancia della forma una carota bianca, un cilindro pallido di formaggio, da provare.
Il primo assaggio era per me, seduta sul primo ripiano, come su un trespolo.
“Se assaggi questo, diventi la principessa del formaggio, ninina”.
Mi piaceva il formaggio magico, che non si scioglieva in bocca di colpo, ma si sgranava in puntini duri.

“E’ magico come il fungo cinese della zia?” – chiedevo, quando, sulla bicicletta si tornava indietro, e il nonno era un po’ più lento ad andare, un po’ più stanco.
“Di più. Questo qui fa apparire le biciclette. Ne mangi un pezzettino, pensi la parola giusta e alla fermata della corriera, la corriera si ferma e viene fuori la bicicletta “.
“Ma io non so qual è la parola giusta “.
“Eh, quella non la posso dire, perché altrimenti l’incantesimo non si fa….”

Allora, alle cinque e mezza, giusto quando cominciava la televisione, scappavo un momento in strada, con le briciole di formaggio in tasca.
Era a cinque passi la fermata della corriera: si poteva rischiare una sgridata, per essere corsa fuori. Pensavo e ripensavo a tutti i nomi che mi passavano per testa, ma mi pareva che ne occorressero di più, di parole.

Un pomeriggio, però, il nonno scese davvero dalla corriera con la bicicletta sotto il braccio.
Rossa.
Molto rossa.
E io non sapevo neanche qual era stata la parola giusta del miracolo, perché, aspettando la corriera, ne avevo pensate un bel po’.
Chi poteva mai ricordarle tutte.

Bellezze in bicicletta

14 lunedì Giu 2010

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

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È preceduta da una serie di nooo, …attenta, va’ piano, …guarda prima di attraversare…, che vorrebbero essere prensili e potenti come uno scudo cosmico.
In effetti arriva, in modo lievemente serpentino, con la bicicletta rosa e i sandali con le paillettes. Direttamente dal mago di Oz: prove tecniche di guida, con padre alato a lato, in copiosa sudorazione da stress.
La prima volta. E di domenica mattina.
Frena con i piedi a strascico: raccogliendo sassolini e altro. In questo mi ricorda qualcuno.

Sono in bicicletta, ci informa.

In sosta instabile al bordo della strada, si ferma giusto per salutare e far vedere il vestito da principessa, quello coi nodi a nastro sulle spalle: una mise da perfetta ciclista, non c’è che dire.
Annuncia i suoi ultimi rilievi in ordine:
– alle cimici,
– ai ragni da guardia,
– agli schifidi (categoria in cui rientra tutto ciò che mal-odora, mal-si-muove e mal-si-lascia-prendere).

Poi tenta di ripartire, vagamente ondivaga, ma rimane allo stesso punto, incespicando sul pedale (destro).
Con l’orgoglio ferito deve ammettere: non mi ricordo più come si fa .
Un “così” e una manatina d’incoraggiamento la rimettono in carreggiata e quasi in equilibrio: coi suoi cinque anni nel cestino, attraversa  pericolosamente il secondo tratto della via.

E noi attacchiamo ai suoi codini tutta la dolcezza apprensiva di cui siamo capaci.

Non è piccola impresa affrontare la vita con una bicicletta rosa fuxia, per altro senza rotelline.

Gli occhi dei bambini

09 mercoledì Giu 2010

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

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L’ultimo nato di famiglia è arrivato col freddo di gennaio: piedi a conchiglia e polsi a manicotto.
Potenza morbida degli incipit.
Anche se in casa si cerca di negarlo, è fatto di burro.
Parlano le prove: colore e odore di buono, intiepidito al sole. All’indugio, ci ritrovi vaniglia e, forse, riso in bianco.
Gli occhi sono un’altra cosa: acqua azzurra, acqua chiara, come li abbiamo cercati da bambini.
(Lunghe ore a fissare il cielo: la pelle dell’iride perché non può cambiare?)

Di ritorno, si pensava alla luce trasparente di quegli occhi. Agli anni che porteranno ombre e velature, ché la vita ha questo suo modo d’affermarsi: profondità pagata con marche di dubbi e di richieste. Spessore degli sguardi, segnati dalle cose.

Ma ora, intanto…
C’è solo latte materno dietro gli occhi del bambino. E racconti veneti e allungati, dovizia di esse dolci e borotalco.
Liquidi splendori.

Che resti a lungo questa gioia disarmata, questa sorridente levità.
Sono così leggeri gli occhi dei bambini.

(dedicato alle mie cugine-sorelle, grandi e piccole)

Così

06 domenica Giu 2010

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 24 commenti

Sto pensando ai fili che collegano i pensieri alle parole.

I pensieri vivono nel disordine della fluidità: non hanno stacchi né separazioni, si muovono con l’andamento dei sogni, ad anse lente e tangenti. Onde pigramente mobili. E sovrapposte.

Le parole hanno bisogno di distanza. Le mie, almeno, da sempre cercano la differita.
Per questo ripercorrono spesso la strada del ricordo. Per questo stanno bene nell’attesa.
Ricordo e attesa sono i due modi della distanza temporale. Le due direzioni.

I giorni del silenzio, mi dicevo una volta, hanno l’ovatta intorno: non cose, non persone, non parole. Solo pensieri, invece, a fare fitto, a prestarsi paure rasoterra e brevi respiri di sollievo.
Senza distanze.

C’è solo da accoglierli.
Nell’elogio della pazienza.

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