Miamamma mi ha mandato un cartoccio di fotografie.
Non proprio un cartoccio: una vecchia busta maltrattata, gonfia di figurine.

Certe sono così piccole, coi bordi dentellati, da sembrare francobolli del passato.
Altre hanno i colori degli anni settanta, lucidi. (Andava l’arancio, anche in foto, non solo nei disegni delle tende)
Sono di tempi diversi: lei, ragazza con le amiche, occhi neri e capelli dolci, mio padre, smilzo con la sigaretta accesa, lo zio, col cappello sulle ventitré e lo sguardo che fa innamorare. Io e mio fratello, bambini. Mio fratello, noto martellatore di statuine del presepe, con l’aria angelicata della prima comunione. E guanti bianchi, molto mistici. Io imbronciata. Sorrido solo nella foto dove sfoggio una vestina a quadretti bianchi e rossi, serpentino-munita. In stile derviscio, credo: la tengo ben aperta con le mani, in procinto di piroetta. Mia cugina ha lo stesso vestito, ma in  versione più adulta: cintura in vita e maniche moderatamente a sbuffo.

Alcune foto hanno quella muffa giallina che fa  da collante fra l’una e l’altra: quale sacrificare se ci si attenta a staccare? Molte sono state ritoccate da scarabocchi infantili o ritagliate o ridotte. Anche un po’ strappate.
Le ho lasciate così, solo impilate a pacchetto e legate con l’elastico, che poi si mineralizzerà e si spezzerà, sfiduciato.
Le ho infilate fra il De bello gallico e Il fiume di pietra. Tanto fra un po’ le coordinate cambieranno o  me le sarò dimenticate.

Io e miamamma abbiamo questa strana gestione delle foto, in comune. Niente album, niente contenitori di metallo ben sigillati, neppure una scatola per le scarpe.
In famiglia ci sono due scuole di pensiero: una invita all’ordine della raccolta. Tutta la storia di affetti e vite amorevolmente custodita, cartoncino dopo cartoncino, diapositiva dopo diapositiva, con le date chiare sulle cassette.
Io ammiro questa scuola, ma appartengo all’altra, quella delle foto finite dietro i mobili, infilate in mezzo ai libri o nei ricettari di cucina, oppure lasciate nelle tasche dei cappotti, dentro le borse che non si usano più, nei cassetti fra le chiavi e le penne che non funzionano, i biglietti della spesa mai buttati e le impegnative scadute per esami non effettuati.
Così, in libertà.
Ci penso, ogni tanto, a questo non saper/voler fare ordine.
E non so dare la colpa solo alla mia pigrizia.
C’è che vivo coi ricordi a porte aperte: in circolazione nella mia giornata e dentro le cose.
Mi piace che arrivino e mi prendano senza preavviso, per essere come i cronopios  di Cortazar : “quando un ricordo passa di corsa gli fanno una carezza e gli dicono affettuosi: “Non farti male, sai”, e anche:”Sta’ attento, c’è uno scalino.”
Forse spero pure in un giro d’aria, in un po’ di corrente che scompigli i tempi e non faccia dire ‘prima’, ‘poi’ oppure ‘c’è già stato’.
Un respiro che tolga immobilità.
Sono immobili solo le conclusioni.