• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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Archivi Mensili: gennaio 2011

I verbi della memoria

27 giovedì Gen 2011

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

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Gesualdo Bufalino

“Ritengo che nessuno senza memoria possa scrivere un libro, che l’uomo sia nessuno senza memoria”, dice Gesualdo Bufalino.

Avere memoria per esserci, insomma.

Per darsi contenuti che accostino o differenzino, che segnino distanze e vicinanze rispetto a fatti e idee.

Per scrivere chi si è e chi non si sarà, né oggi né domani.

Per questo amo tutti i verbi della memoria e credo occorra praticarli assiduamente, specie in giorni offesi.

I verbi della memoria rimandano alla grande molecola degli atti necessari alla vita: ripensare, risentire, ricordare, rammentare, rivisitare, rivedere, rivivere…

Atti della ‘seconda volta’, che sollecitano ogni parte dell’intero, sensi corpo mente cuore, perché qualsiasi ritorno memoriale attraversa tutta la mappa dell’uomo.

Fra i tanti, amo il rimembrare, volto com’è a ricompattare in schema corporeo frammenti sciolti, schegge di ricordo in libera evaporazione.

Mi piace pensare alla memoria come allo spazio in cui nulla si perde, in cui il singolo non solo si riconosce ma può collocare il suo segno.

Memoria melagrana.

Facciamola rotolare in avanti, dentro il nostro presente, perché dica la rotta, nutra vecchie speranze e faccia cadere i nuovi, sciocchi birilli che impediscono di guardare oltre.

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Passamontagna

18 martedì Gen 2011

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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In effetti quello fu l’anno dei passamontagna gialli.
L’inverno di mio padre lontano. In Sicilia.
Io grande a metà.
Mia madre grande a metà, più un pezzettino.
Mio fratello piccolo e basta.

Risucchiata dall’alto, la parte dormitorio di casa si era ripianata nelle stanze di sopra, così come doveva essere, mentre la tavola grande e i divani erano tornati a fare il soggiorno. Il falegname sembrava averli lustrati col fiato, sfregando la manica del grembiule.

Sopra, però, restava il freddo delle case in cui non si abita da un po’, con l’odore dell’umido, che va via solo a primavera, insieme alla naftalina sbriciolata.

Molto freddo.

Per questo, la sera, la Rosa miamamma fingeva il gioco delle partenze.

Si doveva comunque andare a letto e la rampa di scale diventava lo spartiacque fra la casa da giorno, tiepida e lucida ora, sempre con la stufa a lingua di cane, e la casa da notte, gelida di spifferi, calda solo sotto le coperte, dove la padellina con le braci, dentro a una nicchia di legno, scottava le lenzuola e le cuoceva di un odore di pane.

Mica si poteva rischiare la traversata delle scale al freddo. No no.

E poi il bambino aveva una cera da schifo, pallido e con la tosse.

Allora miamamma metteva al bambino un passamontagna di lana gialla e, per vincere le sue resistenze, lo metteva pure lei.

Io no: meglio la morte. Meglio assiderata coi ghiaccioli. Meglio la brina sui capelli. Il passamontagna mai.

Però mi divertivo, sadica, a vedere la coppia in partenza per i piani alti, con quelle testine da uovo sodo…. Alla fine si rideva insieme, perché non si può stare seri se si calza un passamontagna giallo per andare a letto, e si finiva per cantare “La mooontanaaaaraaaaa ueeeeeeeeeee….” salendo le scale con gran rumore, tre bambini nella casa grande.

L’inverno mollò un attimo.

Fu allora che la fase creativa della Rosa miamamma conobbe una sola parola: cretonne.

Inquietante stoffetta fiorita.

Con la furia delle sue decisioni rapide, con l’istinto del tappezziere, la Rosa rivestì le testiere dei letti e ricoprì gli sgabelli e le poltrone, pure aggredì le ante degli armadi con certe tendine arricciate. Niente imbottitura con le puntine a capocchia: quella richiedeva una precisione geometrica, estranea a casa mia. Solo tendine arricciate.

Senza il mio aiuto, naturalmente, perché i giri del pomeriggio mi tenevano fuori casa, sospesa a galleggiante di sughero in un’acqua nuova.

Lontana anni luce dalla fatica della Rosa, insofferente del bambino.

C’erano i ragazzi da guardare e incantamenti da consumare, poi, da sola nella stanza bomboniera, dove mi imbucavo appena potevo, a mettere ordine nei nomi e nei volti della giornata, a rivedere a moviola le scene belle, a cercare nelle poesie le parole che avrei voluto. Dire e Ascoltare.

Adesso ero io, non la Diana miacugina, ad essere accompagnata a casa con certi corteggiamenti di manubrio, magiche impennate sulla ruota davanti …e  domani cosa fai,  non verresti domenica al carnevale e  in gita ti siedi con me…

Occorreva essere sempre fuori. E provare, davanti allo specchio del bagno, risposte e capelli.

La casa non aveva più muri sirena.

Meglio il giardino, se proprio proprio, dove si poteva chiacchierare fitto, sotto il pruno rosa, con le ragazze, e pure scrivere lettere collettive di risposta ai primi biglietti d’amore…. quando cominciare con  Caro Marco  faceva troppo banale,  Marco caro  troppo innamorato, alla Grand Hotel,  Marco tesoro  troppo peccaminoso…, meglio  Marco, ciao… , sì, molto meglio…

Mio padre tornò e trovò la casa imbozzolata di cretonne, la Rosa miamamma con gli occhi fieri, il bambino cresciuto e, al mio posto, un tema dove parlavo di un’amica del cuore….

“Coi pantaloni” – disse mio padre, leggendolo.

E appoggiò al muro il ramo di mandarini che aveva portato per me, in treno, da Catania.

L’argine dei silenzi

14 venerdì Gen 2011

Posted by colfavoredellenebbie in accompagnamenti

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Edoardo Penoncini, José Saramago

(Edoardo Penoncini, L’argine dei silenzi, Este Edition 2010)

Se i titoli contengono già l’orma di un percorso, una suggestione sotto traccia che  può accompagnare e orientare la lettura, la raccolta poetica L’argine dei silenzi sa indicare una doppia direzione: con questa scelta Edoardo Penoncini ci suggerisce sia la scheggia (o delicata metonimia) di un paesaggio preciso sia la cifra vocale della sua poesia, a siglare una ricerca e una opzione espressiva.

L’argine è figurazione mediana: non è della natura, non è della città.
Da un lato c’è il fiume,bandiera, scia filante, / due palmipedi incolori, anatranti, ci sono le rive; dall’altro, in lontananza, ci  sono i palazzi strani / figuri  che si raccontano a spicchi / tra le vetrate: l’acqua e il cotto, i vapori e i marmi, il vegetale e l’umano, due diverse dimensioni accarezzate dalla stessa nebbia e dagli stessi pensieri.

Per questo suo porsi come diaframma metaforico, l’argine diventa un margine, una linea di confine che consente di non appartenere compiutamente ai due mondi, pur permettendo di costeggiare entrambi, di guardarli, sentirli e ripensarli nella distanza della poesia.
E’ un luogo dell’anima, dunque, in cui il tempo si può ripercorrere nei due sensi del presente e del passato,  nel loro incrociarsi e prestarsi presenze: qui si può stare nell’attesa del nuovo e dei ritorni.
E’ un elemento della geografia interiore, dentro il quale, nella dislocazione temporale, si ricuce un dialogo d’amore che parte da lontano e attraversa sotterraneamente la vita come i fiumi carsici, per affiorare solo a brevi tratti: una vena d’amore spesso sognato, risorsa incompiuta, annidata nelle pieghe e nei risvolti dei giorni che schizzano veloci e delle notti graffiate dai lampioni.

Correlativo soggettivo della solitudine, l’argine incrocia la serie semantica dei silenzi, ne diventa l’arca.
E’ una frequenza costante, quella del silenzio, fra le parole di questa raccolta: appartiene all’olmo rifogliante, al fiume, al cielo pervinca, alle fioche luci.
Dice di un’assenza, di desideri taciuti, di pudore, di  segreti e di indulgenza: non conosce né lamento né invettiva.
E’ sospensione, il silenzio, non negazione.
Per questo, nei testi di Penoncini, è vivo e abitato, non è un vuoto a rendere per essere colmato.
E’ un agglomerato di non detto, di sguardi, di vissuti parziali, di tangenze e figure in differita:ripercorre  mille ricordi e rivoli di miele.

La rarefazione di suoni e rumori trova un tacito amico nelle parole di José Saramago: Il silenzio ascolta, esamina, osserva, pesa e analizza. Il silenzio è fecondo. Il silenzio è terra nera e fertile, l’humus dell’essere, la tacita melodia sotto la luce solare. (1)

Il silenzio si configura, infatti, come il grembo che cova la poesia, il laboratorio delle parole che da esso affiorano a “bassa voce” per giungere in verità, in essenzialità.

Mai abusate, anzi dosate, centellinate, quando riescono a fuggire dall’inespresso sanno arrivare senza bugia: … è vero l’amore detto.
Sono preziose, perché cercate in fondali ignorati, in pagine letterarie che non vivono il tempo come abiura, preziose perché ricondotte al loro valore profondo, a significati desueti (sguancio, spiombo…).

Ne risulta una poesia che nasce nel segno della scelta e della selezione, che restringe il suo ambito, senza concessioni alle mode, in cambio della ricerca della intensità:

Ho dato poco voce
fuor del mio orto
e anche quando imperversava
il fuoco alto
scelti erano i volti a cui mi volgevo
forse solo così
sopravvivo ai richiami insulsi
di quel che si spande intorno.

In questa volontaria contrazione/concentrazione, le parole trovano la loro intimità con i pensieri: di essi si alimentano, sullo sfondo del silenzio, da essi traggono la loro capacità di “trasvolare”, di annodare immagini in rapidi, funambolici vicinati.

Ne è esempio questa poesia ‘imaginale’

I pensieri sono svelti miracoli,
capaci a tutto, rapaci, voraci,
duri, malleabili, volubili
pirati, sempre di fretta, furtivi,
luminosi, vagabondi, iracondi,
ladri, ipocondriaci ubriaconi …

I pensieri, macine tritatutto,
sono strani, fornaci fumiganti
che rubano al mare acqua sabbia e rocce,
contorsionisti da facile pubblico,
illusionisti, maghi sopraffini,
fate Morgan/Melusine, sirene …

D’improvviso si manifestano cupi,
gai appaiono come una magia,
stella cadente, filante nel cielo,
mutano lievi lievi in forme semplici:
parole d’incanto, sanno donarsi
freschi al suono di un bisillabo: ti amo.

(1) J. Saramago, Di questo mondo e degli altri, Einaudi, Torino 2007

Ritorni

07 venerdì Gen 2011

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

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Che di  soldi ce ne fossero pochi, in casa, ormai lo si capiva  da piccole cose, non solo dal gioco della casa che si restringeva: il piano di sopra trasferito di sotto, per risparmiare la legna.
Erano cose che non si leggevano tutte insieme, ma che affioravano in abitudini nuove.
Era la Rosa miamamma, adesso, a frugare, il mercoledì mattina, alla “mericastrass”, dove la Norfa, regina dell’usato, neanche si dava da fare per vendere, neanche più decantava i pregi delle sue cose: erano in tanti a cercare, a frugare, nel mucchio e lei poteva stare grassa e immobile a fumare la sigaretta col bocchino, nei suoi ricci di permanente.
Eppure le sottane o le maglie o le stoffe, che arrivavano a casa, non avevano la vecchia magia.

Adesso lo vedi così, ma dopo diventa una meraviglia– diceva miazia, drappeggiando vestiti attorno alla vita della Diana. E io li vedevo davvero già belli e finiti, perché aveva un modo, la zia, che a non crederle pareva di farle un torto.
Era facile, invece, deludere la Rosa, stare impalata a guardarla cercare tra gli stracci, col fastidio dell’odore di vecchio e la vergogna di essere vista dalle amiche, poi, a casa, fare una smorfia davanti alla gonna a pieghe, che doveva diventare diritta  e più lunga, per andare bene.
Era facile farle il dispetto e dire che mai, assolutamente mai, quella gonna sarebbe entrata nell’armadio; salvo poi, nel silenzio, infilarla di nascosto e ammettere, davanti allo specchio, che non era così male.
Prima, il tormento della prova. Era brava la Rosa a trovare scuse alle mie proteste deboli deboli.
Ma fa una piega sul fianco… – tentavo di dire.
Non é la sottana, sei tu che hai un fianco più alto. Lo dice sempre anche la Luciana magliaia – mentiva la Rosa.
Mica bello trovarsi d’un tratto, così, senza preavviso, con un corpo su e giù. Vergogna per altro neanche nascosta, ma addirittura discussa fuori casa.
I fianchi, però, tornavano a posto dentro la gonna finita, lasciata sul letto, e sempre nel silenzio indossata.

A parte l’antico transito dei vestiti, le cose davvero cambiavano: a tavola uscivano timide  certe teorie della Rosa che mai si erano sentite prima. Se si era noi tre, e mio padre lontano, la sera, miamamma preparava il budino sanmartino gusto vaniglia, perché era leggero. E profumava la casa di latte dolce.
(Che bastasse una polvere chiara e mezza bottiglia di latte per quella crema che induriva di colpo e fermava in superficie una schiuma di gomma, era un mistero senza risposte)
Eppure, quando mio padre tornava a riempire la sera col suo fischio gentile, ricompariva lo spezzatino di carne e patate, che si scioglie­va  morbido, in tanto sapore.
Buono quanto i toasts che la mamma della Cri preparava nella padella sulla stufa, e si sbruciacchiavano bene, e facevano fumo, ed erano così moderni, ma così moderni e così americani, mentre a casa mia di moderno c’era solo il budino sanmartino e il resto aveva i segni di quello che c’era già stato, solo con qualcosa di meno, come la carne più rada, o la frutta contata e sempre con qualche segno.

Ma bellissima era la carta-premio che mio padre mi portava dalla Federazione: trentamila lire di libri, da scegliere fra quelli bianchi strisciati di rosso, con parole difficili e forti, e quelli con la copertina di cartone avorio e il timone d’oro.
E non c’era criterio, per scegliere: solo ascoltare la musica di un nome sirena, che chiama, che chiama.
Majakovskij, allora, arrivò per caso, su una nuvola in pantaloni, col suo flauto di vertebre a reclamare un amore immediato, nelle sere di novembre, quando gli altri dormivano nel letto di ciliegio e io restavo nella cucina da sola.

Arrivarono i libri, da allora, puntuali ogni anno, a cancellare rinunce così lievi da diventare il gioco fra noi, nella casa piccola, dove non si poteva scappare agli odori e neppure alle canzoni di miamamma.
Arrivarono i libri cui tagliare le pagine unite, con la smania di non perdere tempo; da covare in attesa di poterli capire.
Libri da buttare dentro, da riscrivere in quaderni piccoli per paura di perderli.
Libri dove mettere la testa e il cuore, dove gustare l’incontro e sapere che sarà per sempre.
Pareti color di crema di quel mondo da annusare e tastare, e ora da dilatare, fino a contenere ogni idea.
Libri per riconoscere, nelle parole già scritte, ciò che si sente, si pre-sente: sconnesso, non chiaro, perché non vissuto, ma adesso trovato, descritto così bene da diventare specchio. O memoria.
Libri anti-dolore, ma il dolore ti trova sempre; anche nei porti sicuri.
E non è schiaffo. Non è sferza.
E’ riprendere, di colpo, lo sguardo vero.
Quello nudo e freddo, non quello che tu hai coltivato, carezza che accetta o traveste il poco che hai, fino a farti credere che va bene così. Va bene così.

Si rideva, noi, dopo due anni di casa ‘piccola’, delle corse da fare, se suonava il campanello di casa, per girare la pentola sul fuoco e offrirne il lato nobile: l’unico manico che le era rimasto.
E si faceva finta di niente se arrivava l’estate, la seconda estate, e i letti non tornavano al piano di sopra, ma restavano lì, in quello che era stato il salotto. Quasi una pigrizia a calamita teneva giù, nel fitto un po’ disordinato del pianoterra.

Ma il terzo novembre, proprio nel giorno in cui la stufa buona si mise a sputare fuliggine e i letti neppure erano fatti, perché l’influenza ci aveva già preso, e la Rosa miamamma da sola puliva il nero con grossi secchi, suonò il campanello ed entrò l’uomo importante, non atteso e neppure conosciuto, con la macchina grande, che cercava mio padre.
La Rosa non fece neppure in tempo a girare la pentola, che mostrò i buchi del manico mancante. E non riuscì a chiudere la porta sul lazzaretto dei figli malati, e nean che a tirar su lo straccio.
Lo vedemmo tutti, lo sguardo dell’uomo, non divertito, non carezzevole, uno sguardo di cartavetrata, che insisteva, senza scivolare via.
Abita qui, vero, il presidente? E’ in casa?
Sta qui, ma è via con sua moglie. Sono rimasta io con i muratori, perchè i putlet sono malati.

Così la Rosa miamamma finse di essere la donna di servizio e il pomeriggio stesso, con i falegnami del viale, freddo o non freddo, cominciò il trasloco verso l’alto.

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01 sabato Gen 2011

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Fu l’estate di Georges.
Nel senso di Calonghi Badellino. Il migliore dei dizionari di latino.
Tutto il sapere tutto, in due volumi neri e pettoruti. Di carta a grana grossa e segni di formica a dire la differenza fra regola ed eccezione.
Bisognava averlo, perché quello di casa ormai cadeva a pezzi e  c’era da inventare: il nastro adesivo per pacchetti (marrone, per altro) già si era  mangiato intere colonne di parole in giunte provvisorie.
Insomma c’era da prendere una decisione.
Il costo del Georges Calonghi Badellino era imponente e si sommava ai libri di greco e tutto quanto, per la scuola nuova.

Perché non vieni a dar ‘na mano, la ragazza va in ferie e te sei svelta, disse la Ines del negozio, una mattina: già da piccola ci andavo per cerniere, spagnolette e ogni tipo digrosgrain, sussiegosa per i compiti maturi che miazia, la sarta, da sempre mi assegnava (scegliere il colore del filo da cucire, contare gli automatici due volte, cose che riempiono di soddisfazione…).

In realtà non c’era un gran da fare, nei pomeriggi caldi dell’estate. Però si stava bene.
La bottega era un luogo di frescura: entravi e la luce veniva da lontano, scriveva un corridoio nell’androne, foderato di pezze di stoffe alle pareti, di manichini con le dita mozze e  spilli a modellare improbabili drappeggi sulle spalle.
Il vecchio marmo, che faceva pavimento, dava un frigidino persistente, come in ostaggio fra le ali dei banchi laterali: lì, lì sopra, si  poggiavano richieste di bottoni, sospiri per pizzi e taffetas, svelature di calze e sottovesti, campioni di tessuti che chiedevano spighette in armonia.

C’era in fondo solo da ascoltare e poggiare le cose possibili sul banco: sorridere, anche. Ed essere gentili: scomporre le cartine dei bottoni perché facessero proprio il loro occhio e dare un colpetto con il polso: così la biancheria pareva un sortilegio volato fuori dalla scatola, con le pieghe ancora ferme al loro posto.
Piaceva, alla signora Ines, se aggiungevo frasi un po’ da grande … come ha scelto bene, …  ah, piace anche a me, …l’ha comprato pure la miamamma…
La vedevo assentire con la testa.

Forse fu questo a darle un’altra idea.
Vieni più presto, domani pomeriggio.
Al banco ammiraglio, quello col cassetto dei conti e dei tesori, c’era un registro, assieme ad una penna.
Scrivi, mi disse, ché non ho mai le idee se muore o si sposa qualcheduno. Scrivi, così faccio una figura buona, anche per i battesimi e le comunioni. E’ che ci vogliono parole per tutte le occasioni. Scrivi ben qualcosa pure per gli auguri.

Fu l’estate delle parole in fila, a compensare i vuoti dei clienti con tanti bigliettini in ordine di tema e di lunghezza.
Con nascite e nozze andava a meraviglia, la mistica invece un poco difettava. Ma era nelle frasi di cordoglio (parola sempre odiata con fierezza) che fruttava il lato drammatico di casa. Certe espressioni che sfuggivano a mianonna, certe poesie di Foscolo recitate da miamamma, ritornavano in  frasi piene di urne, di ombre e di celesti doti… Scrivevo e rileggevo proprio col magone quei ‘nel giorno della vita più angusto e doloroso’  e mi veniva da tirare su col naso.

L’estate finì ed io fui ricompensata, moderno baratto fuori norma, con due scampoli di lana e di cotone: prima avvisaglia di simil-sfruttamento che germinò in mute proteste e grandi pianti.
Il Georges  Calonghi Badellino me lo comprò mio padre.

Questo mi è venuto in mente, oggi: chissà come sarebbe ritrovare ora un biglietto d’auguri scivolato da  quel registro. Verrebbe da sorridere, certo, a fronte di tanta bruttezza.
Meglio servirli  freschi, gli auguri, di giornata e possibilmente non di seconda mano.
Eccoli qua. Buon anno a tutti.
zena

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