• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: aprile 2011

La bambina del pane

21 giovedì Apr 2011

Posted by colfavoredellenebbie in storie di seconda mano

≈ 42 commenti

Il bello dell’andare a letto presto era poi quell’alzarsi dentro il buio, chiaro, nel giorno che è sul punto di arrivare: d’inverno è nebbia e latte, col caldo è odore di promessa, di madresilvia o di peonia bianca.

La bambina scendeva per le scale e si sedeva sull’ultimo gradino: le piaceva ascoltare di nascosto suo nonno che cantava dentro al forno con un filo di voce infarinata.
Cosa cantasse non si sapeva dire: c’erano angeli, in giubilo a Betlemme, e un pastore ricco di pecore contente, c’era pure un ceppo secolare e l’antico tentator, armato di furor e inique frodi, forse dentro la forte rocca, e poi mani, mani levate al cielo.
Bellissime parole, che sembravano miracoli o magie, come le rosette, così smorte, in fila sulla pala, e poi, vicino al fuoco, eccole  gonfiarsi e tendere la crosta ( il bottone sul punto di scoppiare).  E prodigio era l’odore cotto, di panni puliti e caldi, di acqua evaporata sul muro dell’agosto.

Perché canti?, chiedeva a volte la bambina.
Per aiutare il lievito a salire, era la risposta.
La bambina lo domandava apposta, giusto per ridere con lui.
L’aveva visto su un giornale vecchio, quell’uomo col turbante: suonava un piffero un po’ strano e i serpenti si alzavano dal paniere con la testa dritta. Anche suo nonno era un po’ fachiro, fachiro di ciambelle e di rosette.

Voglio imparare anch’io, diceva a bassa voce, il pane e gli inni, tutto insieme.
E il vecchio se la prendeva in braccio,  così piccola e scura fra i sacchi di farina.
Il pane te lo insegno, ma tua nonna mica è poi contenta se tu canti  per casa le mie cose. Lei corre dietro a un altro campanino, alle sottane dei preti e delle suore…Lo sai che vuol  comprarsi il paradiso…

Sei magro, allora lei diceva per mandare via i pensieri brutti, i musi o i silenzi o le sgridate dei giorni  che la nonna era rabbiosa per la sfortuna dentro la sua casa, un figlio andato chissà dove e l’altra con la pancia ancora grossa: giusta sacrosanta punizione, da trombe del giudizio, perché mai si era sentito di due fedi sotto lo stesso tetto, due chiese e due bibbie e quelle parole matte. Ché lei era sicura di cambiarlo, per questo se l’era anche sposato, lei, vedova contesa, che portava in dote un cavallo bianco e tele sottili come l’aria. Ma lui invece, macché, sempre nel peccato col suo Valdo…

Son magro perché ogni parca cena manda in letto, e di colpo snebbiava le paure che le leggeva dentro, dai, che tua nonna è anche brava, sai,  e il suo paradiso avrà un odore buono come il mio. Forse lo stesso pane. E adesso  ti insegno a sceglier la farina.

Bisognava pizzicarne un po’ e stringerla forte fra le dita: aveva da restare appiccicata e fare consistenza. La farina troppo sfragolona è debole, quasi non ha susta e il lievito lo sgugna: non tiene niente e non dà niente. Come il tempo speso a litigare.

Ogni sacco veniva visitato nel gioco di spizzichi e presine: il verdetto restava  sulle mani.
Era tutta  buona, la farina.

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Qui da noi

14 giovedì Apr 2011

Posted by colfavoredellenebbie in passaggi

≈ 21 commenti

Qui da noi i giorni si fanno a volte un poco strani.
Partono come fiori di tarassaco, gialli e robusti, così densi  di sole da poter scaldare. Poi, di colpo, diventano soffioni, di ore fragili: basta un attimo malfermo, una frusta volubile di  tempovento per  far tremare geometrie perfette.
(gli attimi in circolo, per aria, a dissestarsi in tante direzioni)

Ci vuole la pazienza dell’indugio: fermarsi, le mani calme per dare al respiro il ritmo buono.
Incanto del decanto.

Aprile

01 venerdì Apr 2011

Posted by colfavoredellenebbie in pareti

≈ 33 commenti

Se mio padre decideva di andare a pescare, la casa viveva giorni di apprensione.
Le canne non erano mai come erano state riposte e tutti  si  era  sospettati  di  sotterranei  boicottaggi, nodi  a tradimento  sull’esile  filo di  nylon, mulinelli  inceppati, esche rivelatrici  di  capelli.
Miei, i capelli.

Era vera solo la  faccenda  delle  esche:  quelle piumette, quei quasi  campanellini luccicosi erano giochi,  trucchi arabi di  orecchini-amo  e  di   mosche acchiappacapelli, con cucchiaini  a pendente.
Il  paniere  da  pesca, superato  lo  scoglio dell’odore, era una riserva di  idee, nei mesi freddi, quando si doveva pure fare qualcosa.

La  vendetta di mio padre  non tardava a venire.  Il lungo  filo di  nylon veniva  interamente srotolato e riavvolto  con  cura a ripetuti giri attorno ai muri della casa, che diventava una grossa rocca da fuso, legata dall’invisibile.
E noi, i prigionieri, eravamo impediti ad uscire per lunghissimi minuti  in cui  a tutti scappava la voglia necessità impellenza di  correre fuori.
Ma  il pescatore punitivo srotolava imperterrito la sua matassa  senza labirinto e ci dava la voce dalla fìnestra.
Il “nessunesca” sembrava un passo di opera lirica, per via dell’autorità che mio padre metteva in ogni cosa, piccola o grande che faceva e diceva.

“Dov’è che vai?” – chiedeva la Rosa miamamma, che sperava in insuccessi totali  per lo  schifo  che aveva del pulire il pesce, con quelle  sue  bolle d’aria  o vesciche. I bambini le aspettavano per farle scoppiare con lo zoccolo, ma poi si lasciavano le schifezze delle  interiora alle spalle; era lei a pulire, non  miazia, perchè miazia ad ogni cambio di stagione  aveva l’ acidità di stomaco, che neanche col fungo cinese  andava via e la vista dei baffioni  dei  pescegatti  non migliorava  niente  il suo male.

Il  fungo  cinese, che gorgogliava  come  una  frittella di spugna  nella  boccalina  di vetro, in un’acquetta  acida e marrone, lo bevevamo  dì  nascosto anche io e la Diana, lei perché voleva ben vedere  cosa beveva sua mamma  e io perché volevo ben vedere cosa beveva la Diana.

Il fungo cinese sapeva  di rancido amaro e galleggiava incerto con quel suo orlo-labbrone a smorfia.

Comunque a miamamma toccavano i pesci da tagliare  sulla pancia e da strizzare  bene coll’ unica compagnia del gatto, che,  con misurata circospezione,  dava dei colpetti a qualche  pesce  periferico, per tirarlo dalla sua parte.

Le  risposte  di  mio padre, circa i luoghi di pesca,  erano bellissime  e  disegnavano il lontano.
Lo attendevano non il Po o la Canalona, grassa di rane sui  bordi, ma il  Canal Bianco  o  il Tartaro.  E le tappe le faceva a Santa Teresa del Gesù.
Mica poco.
Io non sapevo dove fossero questi posti, ma mi  sembravano tutti di chiesa, molto di chiesa, belli e terribili, tanto che mi pareva più giusto che prima  lui pescasse nel Tartaro, che aveva un nome cattivo, e poi  andasse a chiedere scusa nel Canale Bianco, dove di certo i pesci erano chiari di latte e forse non si dovevano neanche pulire, e non avevano nè bolle sonore nè sangue.

Da piccoli c’è bisogno che i nomi dicano la verità, altrimenti cosa ci stanno a fare?
Si sanno solo i nomi. Si conserva, si  trattiene solo  la buccia.
Si ripetono di fila i nomi  delle  capitali  del mondo, ma chi sa cos’è la capitale, ma chi sa cos’è il mondo?
Se invece  i nomi fossero frecce…
Se portassero almeno una  direzione…
Se  a dire la parola si capisse  quel  che  sta dietro, uno, allora, non  avrebbe  bisogno  di  inventarseli,  i  richiami, né sarebbe costretto a inventarsi le parole.
Si starebbe al sicuro, come sotto un ombrello.

A Santa Teresa del Gesù ci  doveva  come minimo abitare la Madonna, o un angelo o due.

“Si possono cambiare i  nomi?”- chiedevo a mia mamma- “Chi è che li fa ? E se io invece di dire pesca da mangiare, dico lasugosa, ma so che è la pesca da mangiare, che cosa succede?”
Mia mamma  non diceva niente, o meglio mi lasciava dire, e guardava il suo uomo alle prese con un motorino che non partiva, scrollato da ogni lato, rabbiosamente.
Tanto io pensavo già ai nuovi nomi con cui avrei ribattezzato il mondo.
Nomi  di armonia, che stessero bene alle cose.

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