Mare.
La bambina doveva andare al mare.
Il dottore aveva detto che proprio bisognava: la tosse poteva peggiorare e le ossa chiedevano del sole, ché parevano fatte con la cera. Un sole mica di campagna, con l’umido che resta sulla pelle: un sole di vento e sale.
Bisognava, proprio bisognava.
Il posto c’era, là nella colonia: il dottore aveva insistito con le suore. Era uscito un di malagrazia, ma solo perché Sesto tagliava il rosaio della siepe, dopo l’inverno.
(Almeno vederla in chiesa, la bambina, qualche volta. Eh, in chiesa. Giusto ai funerali.
C’era un bel tempo per portarla in chiesa. Alle sei si era di trotto, a fare le giornate: persino a batter canapa nel macero, che non c’è fatica al mondo grossa uguale, no)

La Dilma era rabbiosa. Come quei cani che stanno alla catena e l’acqua è un po’ più in là. E non c’è verso. Neanche a tirarsi il collo.
Al mare servivano le cose: grembiuli leggeri, un costume, magari fatto a ferri, a maglie fitte fitte. La sera si poteva fare. Questo sì. Ma c’era da comprare un po’ di biancheria e cucire i numeri di dentro. E mettere la piccola sul treno, ché, gli altri, erano già partiti. Da andare fino a Ferrara.

La bambina si guardò intorno: il biglietto stretto nella mano, la valigia nella rete, sopra la sua testa, la carta dell’Italia con tutte le regioni, sul fianco del vagone. Scuro, col portellone che si chiudeva truce: uno schiaffo di ferro.
La busta dei soldi, in tasca, perché non si sa mai.
Guarda di portarli indietro tutti, aveva detto sua mamma
E la bambina, .

La campagna correva davanti al finestrino. Il gioco era aspettare il colpo sghembo, un nodo lì, sulla rotaia, o una curva ribalda all’improvviso, e sbattere qua e là: veniva voglia di accompagnare la scossa con i fianchi e ridere di dentro.
Però.
Il caldo, il giallo, il finestrino chiuso facevano venire una gran sete.
Passava il ragazzo con il secchio: le bottiglie ficcate dentro il ghiaccio. Aranciate con le gocce in corsa lungo il collo. Dovevano essere gelate. Lo diceva, il ragazzo, con grido modulato, ogni volta che passava in corridoio.
La bambina gli teneva dietro, con occhi innamorati di quel fresco, ma i soldi dovevano restare nella busta.

Il treno si fermò: il ragazzo lasciò il secchio lungo il corridoio, chiamato all’uscita da una voce.
La bambina fu svelta come non sapeva: la bottiglietta nascosta dritta, fra la schiena e il dorso del sedile. In un fermo egizio.

Tutto riprese, quasi come prima: tre vecchie dentro lo scompartimento, davanti a lei a parlare in italiano bello.
Forse un tribunale.
La bottiglia a fare freddo fra le ossa, e la carne, intanto, già incantata.
La sete a cementar la gola, con la parola ladra di traverso.

Il ragazzo passava e ripassava, col suo secchio e col suo grido uguale: a ogni giro, la paura rospa saliva su dal basso e si gonfiava, quasi il respiro fosse la sua pompa e, tutto il corpo, cuore.
La bambina avrebbe voluto scappar via, ma l’aranciata  si era fatta un nido di ghiaccio e di rimorsi, sulla schiena, e la teneva stretta.

Scese per ultima, dopo la vecchia che le aveva calato la valigia.
La bottiglia intatta sul sedile. L’ombra bagnata sulla schiena. La suora ad aspettarla sul binario.
Sei sudata, le disse.