Qui come altrove, c’è l’ uomo che scrive su fogli da musica. Dodici pentagrammi per ciascuno.
Stende la carta bene con le mani, perché non  corra il rischio di una  piega.
(Nei lembi che si toccano, per colpa di una grinza, le lettere sono strette in troppa confidenza)
Se sul tavolo c’è  polvere d’inchiostro o di pastello, l’estro lo chiama a macchie di colore.
Le scioglie col palmo tutto aperto, sfiorando la carta senza sfreghi: movimenti di nuvola nel cielo o saluti lenti alla stazione.
Infine appoggia le parole, per grazia di un pennino a punta grossa e china trasparente: parole che vengono da amori alberi e fiori, rade sul rigo, sospese come passeri sul filo. Perché, se arriva il vento, siano pronte a volare via, a suonare nell’aria alla rinfusa, come grani di collana liberati. Senza più peso.
Tornano, dopo, sporche di alto. E allora è poesia.