Il vecchio si svegliò perché le tortore parevano impazzite e sfogliavano la coda.
Spettinate baruffe di conquista sul filo della luce, a mezzo del cortile di ortensie e di peonie.
Si ritrovò sul fianco, il braccio intorpidito.
Dormiva così, quasi ancorato al bordo, dove il materasso conosce l’orgoglio di una increspatura: argine lieve, prima del vuoto.
Si girò, ad occhi ancora chiusi.
Il letto taceva, anche a scorrerlo col palmo della mano: nessun respiro, lì vicino. Neppure il calore che a distanza sa dare un corpo addormentato.
Allora ricordò.
E non gli venne voglia di scendere dal letto: cosa c’era mai da preparare.
Tornò a sinistra, per sentire il cuore: gli piaceva accoglierne l’avvento fra le pause delle sospensioni, ché il battito apriva i suoi pensieri come un picchio.
Quella mattina arrivavano a frotte, le figure.
Il corridoio d’erba, a spalla della vigna, dove, ragazzo, torceva i fili di canapa alla ruota.
Avevano potato: la vide raccogliere secchezze, piccoli tralci un po’ nervosi, con la grazia di chi non sa arraffare, ma sceglie i fustelli giusti da camino, con scrupolo e ordinata gentilezza.
La vide che legava le fascine, le gambe piegate con pudore.
Si era innamorato di quei modi, e glielo disse, baciandola dietro la fornace.
Ancora ne sentiva il tepore contro il petto. E la forza muta dei fianchi.
Ridevano piano, per quelle molle povere di olio, nel letto bianco della prima notte.
Quella mattina arrivavano a frotte, le figure.
Sapevano la strada: rotolavano fra neve e muri di pannocchie, seguivano la coda di fossi e di canali o stringhe di polvere battuta. Erano calde di legna sopra il fuoco, acute come il verso di civetta che ghiaccia l’aria e poi la sfregia, e dolci come il latte nella tazza dei bambini.
Arrivavano quasi ci fosse un buco dentro il cuore. O uno squarcio che non tiene e si sfilaccia. Forse una ferita.
Il vecchio capì allora gli occhi dei pioppi.
Macchie scure, incise fra palpebre di tronco: l’orma che resta di un ramo che si spezza e cade e muore, nello schianto della legna vecchia.
Partenza cerchiata col carbone, quasi fosse un giorno sopra il calendario.
Distacco impresso sulla pelle, cicatrice di zuffe col vento e con la pioggia, vuoto tatuato, che non si cancella.
Ma anche sforzo di tutta la corteccia, di fili e succhi chiamati a rammendare, a grinzarsi attorno a un nero cavo, per risarcire la vita che si è rotta, la perdita di un gesto e di un abbraccio, con un occhio che si apre sul fusto e sa guardare, anche nella nebbia.
Chissà cosa vedranno i pioppi dentro il buio, il vecchio adesso si chiedeva, che lavoro di ombre e di radici, che formicolio di luci in lontananza…
Poi scosse la testa. E lasciò che i giorni tornassero all’indietro, per quel varco aperto dal dolore.
Il corpo accoccolato, tutt’attorno.