• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: luglio 2014

Viserbeide 1, ovvero Il prologo

26 sabato Lug 2014

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La Iris buttò lì ‘Viserba’, a tavola, il giorno della cacciatora: rito pagano officiato a mezzogiorno, dopo prelievi dall’orto e dal pollaio.
Bastava l’odore a conciliare i sensi, perché cipolla e peperone, se uniscono i destini, fanno dell’aria quasi un paradiso: malizie di padella che inducono la bocca a dire sì.
La Iris prese le cose alla lontana, sicura della meta: sospirò verso il manichino, dove il prendisole, in prova fra spilli e imbastiture, apriva la pianura all’altra spiaggia, quella di sabbia e macchie di catrame. La cliente sarebbe passata di lì a poco, giusto per regolare le spalline.
Quest’anno vanno tutti al mare, disse, guardando d’intesa la Rosa suacognata, che stava zitta e muta, in soggezione.
La moglie di Walter va a Viserba, che è proprio  un posto da bambini.
La Dina abboccò all’amo: il bene dei bambini era l’apriti sesamo per ogni decisione. Se poi non stavan  bene… Se poi c’era stata quella polmonite, con le febbri alte e pure la paura…
Con tutta la tosse di st’ inverno, li putini iè smorti che sembrano liscivia, e intanto riempiva il piatto alle nipoti per portarsi avanti coi restauri.
Il vecchio ascoltava e lavorava bene l’anca del pollo: lì, la carne lascia volentieri l’osso e accoglie il sugo senza farsi scivolosa; allora il gusto trova l’armonia e si scioglie in una gioia tutta dentro. Dopo, basta un’albicocca.
Si alzò dalla tavola convinto: se il mare serviva a tener quiete le giovani di casa, … ma pronti!
Giusto come l’olio, emise la sentenza: si potrebbe chiedere a Giannino, il cognato che abitava al mare, per tutta la famiglia la più avanzata punta balneare.

Partirono una mattina presto, con la macchina a servizio, le nuore, le valigie, i fagotti, le bambine, anche la figlia della Nelly, che, la tosse, non l’aveva ancora avuta ma poteva ammalarsi a tradimento: il vecchio impettito davanti con l’autista, a parlare del tempo e della strada, e poi a salutare in fretta, per tornare.
La casa era della levatrice: lo zio l’aveva intercettata nei suoi giri dell’olio porta a porta.
Una stanza da basso che pareva un corridoio, una scala per fuori dritta dritta, con lo scarto improvviso verso destra: grande, una camera con tutte le brandine.
E il bagno? chiese la Diana, a flauto. Nel casotto esterno, con la sua bella porta a metà gamba, insieme ad un gocciolatoio per lavaggi sommari, sotto la catalpa.
Si era arrivate al mare.
Due grandi e tre bambine, nel gioco comune della prima volta, in una casa che non era casa, ma accampamento nel mezzo del deserto, con la sua oasi in forma di fontana  e l’acqua a catenella nel cortile: ovunque l’odore dei gusci delle cozze.
Tutte le speranze di quell’estate rossa nella stradina che portava in spiaggia.
Non si sciolsero neppure le valigie, via le scarpe perché c’era solo sabbia, calda calda nel sole delle due.
Dietro ai cespugli, il mondo fatto a strisce.
Al mare c’è più cielo, disse la più piccola.

Leggerezze

18 venerdì Lug 2014

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Arrivano alle sette, nel tramonto che diventa breve ( un cielo a violacciocca, appena rosato e mosso).
La parete di fronte, coi mattoni scoperti, intanto, prende la luce, la tiene sulla pelle per qualche minuto, ancora.
La vite americana è già sfumata in rosso.
Arrivano di colpo, da direzioni diverse: cento o più, per una mappa segreta o un qualche orologio o batticuore.
Si annunciano con squittii da cielo, un vociare cigolante e prolungato, come certi cavatappi a ricciolo, quando, a lavoro compiuto, son chiamati a risalire dal sughero e lo fanno con un gemito pieno di c c c fischiati.
Arrivano, i passeri.
Entrano a volo secante (o a tuffo) nella vite americana, che li invita, ruffiana, con certe bacche nuove. All’improvviso si gonfia, si sgonfia, si scompone, se li riprende e dopo li nasconde.
E’ tutto un dire un dirsi un fare; una gioia smodata, gridata, chiacchierona, mentre l’estate gocciola più lenta nel suo caldo.
In questi minuti di frontiera senti la vita che respira.
Si allarga e si stringe, si allarga e si stringe, come la vite un po’ accesa e un po’ ramarra.
Il mondo è prestato ai passeri e coi passeri “canta e ride”.
Un mondo parallelo, fra un muro e un panno di foglie.
Scorre e rinasce, per appuntamento.
Così gratuita, questa gioia, che niente, niente resta come prima.

A volte

08 martedì Lug 2014

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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A volte vorresti decidere il cielo.
Ieri così denso e spesso, nonostante il vento.
Caldo e a mezz’asta.
Segnali di un temporale in arrivo.

Immediato conflitto di interessi.

Ritirare o non ritirare i panni?
(Ha perso il suo splendore sbandierato, il bucato, nella cattività di spazi piccoli; conserva un orgoglio di ripiego, sui fili dello stendi-biancheria.)
E i pensieri a dire: meglio che non venga pioggia.

Innaffiare o non innaffiare ?
(Il gelsomino giallo contamina le foglie di arsure motivate. La prima fioritura ha fatto il giro delle vasche)
E i pensieri a dire: meglio che venga pioggia.

Il non sapere porta languori di volontà.
Si sta.
Senza precisazioni.
Si aspetta.
Senza impazienze.
Il si vedrà è una talpa che lavora sotto e toglie l’energia.

La giornata è passata senza temporali.
Fra cieli sogguardati, umidori non risolti e secchezze inascoltate.
La notte, un po’ di pioggia.
Senza rumore. Senza gli scoppi che danno senso all’attesa.
Poca per i fiori, troppa per i panni, poi dimenticati.

Ciò che si attende, quasi non si riconosce, all’arrivo.

(dedicato a E. che ascolta l’attesa dei temporali)

Salamini

03 giovedì Lug 2014

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Dobbiamo pulire l’orto, noi due, le disse Bigìn suo nonno, mentre guardavano il buio nel cortile, seduti insieme sopra il gradino di cemento, tiepido perché il sole sostava lì, prima di andare via. Il posto dei gatti a pancia allungata, vicino ai pali d’ortica dei malvoni. E anche il posto dei tramonti fitti di rondini, d’estate.
La faccenda in sé non era d’entusiasmo.
Levare l’erba? e la Rosa già pensava al male dello strappare la gramigna: le mani che si tagliano e si fanno verdi, con le unghie scure. E lo schifo di trovare un rospo che, se ti centra gli occhi con la sua pipì, è capace di portar via la vista.
A lei piaceva solo cercare uno stelo lungo e tenerlo dritto fra le mani giunte (i pollici uniti, le altre dita a fare da conchiglia), e poi soffiare e sentire un suono di raggriccio, come di limone mangiato senza zucchero.
Ma no, c’è da spostare le fascine del forno per fare uno spiazzo largo. Viene a seppellirsi Salamini.
La paura di vermi e di rospi in mezzo all’erba non era niente a fronte di quel nome. Perché Salamini, di mestiere, andava in catalessi.
Catalessi. Alla Rosa la parola piaceva molto molto: prima si era immaginata un tiro di cavalli che portavano un catalesse grande, una carrozza bella, da giostra o da marchesa. Ma quando suo nonno gliel’aveva spiegata proprio a modo, la parola le era piaciuta anche di più: quasi morire, col cuore che batteva piano, il sangue che restava fermo e gli orecchi come foderati…
Ah, ma poterlo vedere da vicino, uno in catalessi, era quasi toccare il mistero con un dito. Si poteva ben togliere l’erba con piacere se Salamini veniva a seppellirsi proprio lì, nell’orto dietro il forno, con la parete grigia e il cyssus che saliva in alto e poi si staccava, pendulo, nel vuoto.

A vederlo, quell’uomo magrolino, nessuno gli avrebbe dato un centesimo di stima: giacchetta spiegazzata, gli occhi con due mezze lune tristi, scarpe piene di polvere, quasi fosse arrivato a piedi da lontano. E invece veniva da Mantova, in corriera, con la valigia e basta: la gente lo aspettava per la strada, perché ormai in paese lo sapevan tutti che veniva a seppellirsi per due giorni nell’orto di Bigìn e dopo, forse, avrebbe ipnotizzato una gallina. Dura stecchita, con l’occhio a uovo sodo.
La Rosa era pronta fino dal mattino: nell’orto non c’era neanche un bruscolino e l’erba sembrava pettinata.

Salamini arrivò nel primo pomeriggio: poche parole, ma imperiose.
Una fossa, serviva, scavata dai ragazzi, non da lui, perché non ci fosse ombra di trucco ad offuscare il fatto.
In sei spalarono una buca a quadrello, fonda un metro e più, e lunga quasi due.
E poi le indicazioni: una volta andato in catalessi, si doveva calarlo piano con le corde, coprirlo con la terra, da spareggiare con cura, vegliare tutta notte, ché nessuno avesse a dire di oscuri sotterfugi… E poi tirarlo fuori, la sera del giorno dopo, giusto in tempo per lo spettacolo  in teatro.
Solo occorreva lasciarlo stare in camerino, davanti allo specchio, perché si doveva ipnotizzare: alle cinque, almeno per un quarto d’ora.
Ammessi due aiutanti che l’avrebbero portato col lenzuolo, come un cristomorto nel sudario.

Roba da ‘sterici, dicevano le vecchie, oppure da imbroglioni.
I ragazzi, intanto, giravano lì intorno, con brevi passaggi in bicicletta e rapide frenate: dritti in piedi sui pedali, per vedere qualcosa, oltre le teste.
Insomma, nessuno voleva lavorare: mezzo paese se ne stava lì, a fare due ali di corteo al tratto che Salamini avrebbe attraversato in catalessi, chiuso nel lenzuolo. Dal teatro all’orto di Bigìn, dove la fossa aspettava, quieta, appena foderata di fascine verdi.
La Rosa li aveva ben guardati, quegli occhi incantatori, mentre suo nonno salutava l’uomo. Le pareva che fossero infossati, come se avessero vagato per il mondo, stanchi, non  pieni di stupore: vecchi per avere visto troppo.
Era curiosa di quello che accadeva dentro il camerino, stanza che dava da un lato sul cortile, dall’altro nel teatro. E proprio lì c’era una fessura: la Rosa lo sapeva perché glielo aveva detto Regolo, suo zio. Bastava entrare nell’atrio, nascondersi dietro la tenda, poi spostare l’asse e farlo scorrere, piano.

Salamini guardava fisso nello specchio, le mani appoggiate sui bordi del lavandino. Dialogo muto per un po’, poi cominciò a fare gesti in aria e a dire delle cose: le mani giravano, parevano traversare il mare e poi volare in cielo, mani giocoliere, mani burattine, mani di furetto che sgusciano e ritornano.
Le parole, come poterle mai sentire? Erano solo un borbottio.
Erano gli occhi sbarrati a fare più impressione, spalancati e fermi in un punto, vicini al vetro come se avessero voglia di entrare nello specchio.
Poi tutto il corpo diventò di cera, rigido e molle, insieme, e cedette all’indietro, preso al volo dai due ragazzi che gli stavano alle spalle, immobili fino a quel momento.
Avrebbe gridato, la Rosa, ma la gola le restava tutta ingombra perché il cuore voleva uscire fuori e il respiro era finito nelle orecchie, come nei giorni di gran caldo e di cicale matte.

E così Salamini fu interrato, dentro al suo lenzuolo: la terra a coprirlo bene e un cumulo di sterpi in sovrappiù.
Lo vegliarono fino al giorno dopo, con turni da caserma, organizzati.
La Rosa rimase sempre in casa: le pareva di vedere quegli occhi dappertutto, persino nei fiori della passiflora e sulla coda spelacchiata del pavone vecchio, che abitava nel pollaio della Luigina. E ogni volta risentiva quelle capriole in gola, un senso sudaticcio di paura, che non finiva più, neppure quando, grigio e imbambolato, l’uomo fu tirato fuori, salutò, e si bevve un bicchier d’acqua.
Applausi un po’ stupiti e chiacchiere per tutta la stagione.
L’orto di Bigìn fu meta di pellegrinaggi: la buca restò aperta per molti giorni ancora, poi la Matilde seminò il radicchio tardivo, proprio lì, sulla terra sparigliata, un radicchio che la Rosa non volle più né cogliere né mangiare.

Vele

01 martedì Lug 2014

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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È stata una giornata calda, col riverbero negli occhi.
Se li chiudi, il sole resta impresso in cerchi arancio, un po’ irregolari, come quelli delle tende a cascata, anni ’70.
È stata una giornata gialla, proprio gialla di luce, che non riesci a tenere fuori dalle imposte, perché galleggia sul vapore ed entra orizzontale, senza sbiechi.

Allora succede che durante il giorno si cattura la voglia di buio e si pensa alla sera come al porto da cui far partire una vela, perché viaggi, fresca, e scivoli senza rumore…
Le parole portano parole.
La vela mi ha portato a Caproni e alle sue vele, timide di parole nella notte.

…perch’io, che nella notte abito solo,
anch’io, di notte, strusciando un cerino
sul muro, accendo cauto una candela
bianca nella mia mente – apro una vela
timida nella tenebra, e il pennino
strusciando che mi scricchiola, anch’io scrivo
e riscrivo in silenzio e a lungo il pianto
che mi bagna la mente…

(Giorgio Caproni )

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