Dobbiamo pulire l’orto, noi due, le disse Bigìn suo nonno, mentre guardavano il buio nel cortile, seduti insieme sopra il gradino di cemento, tiepido perché il sole sostava lì, prima di andare via. Il posto dei gatti a pancia allungata, vicino ai pali d’ortica dei malvoni. E anche il posto dei tramonti fitti di rondini, d’estate.
La faccenda in sé non era d’entusiasmo.
Levare l’erba? e la Rosa già pensava al male dello strappare la gramigna: le mani che si tagliano e si fanno verdi, con le unghie scure. E lo schifo di trovare un rospo che, se ti centra gli occhi con la sua pipì, è capace di portar via la vista.
A lei piaceva solo cercare uno stelo lungo e tenerlo dritto fra le mani giunte (i pollici uniti, le altre dita a fare da conchiglia), e poi soffiare e sentire un suono di raggriccio, come di limone mangiato senza zucchero.
Ma no, c’è da spostare le fascine del forno per fare uno spiazzo largo. Viene a seppellirsi Salamini.
La paura di vermi e di rospi in mezzo all’erba non era niente a fronte di quel nome. Perché Salamini, di mestiere, andava in catalessi.
Catalessi. Alla Rosa la parola piaceva molto molto: prima si era immaginata un tiro di cavalli che portavano un catalesse grande, una carrozza bella, da giostra o da marchesa. Ma quando suo nonno gliel’aveva spiegata proprio a modo, la parola le era piaciuta anche di più: quasi morire, col cuore che batteva piano, il sangue che restava fermo e gli orecchi come foderati…
Ah, ma poterlo vedere da vicino, uno in catalessi, era quasi toccare il mistero con un dito. Si poteva ben togliere l’erba con piacere se Salamini veniva a seppellirsi proprio lì, nell’orto dietro il forno, con la parete grigia e il cyssus che saliva in alto e poi si staccava, pendulo, nel vuoto.

A vederlo, quell’uomo magrolino, nessuno gli avrebbe dato un centesimo di stima: giacchetta spiegazzata, gli occhi con due mezze lune tristi, scarpe piene di polvere, quasi fosse arrivato a piedi da lontano. E invece veniva da Mantova, in corriera, con la valigia e basta: la gente lo aspettava per la strada, perché ormai in paese lo sapevan tutti che veniva a seppellirsi per due giorni nell’orto di Bigìn e dopo, forse, avrebbe ipnotizzato una gallina. Dura stecchita, con l’occhio a uovo sodo.
La Rosa era pronta fino dal mattino: nell’orto non c’era neanche un bruscolino e l’erba sembrava pettinata.

Salamini arrivò nel primo pomeriggio: poche parole, ma imperiose.
Una fossa, serviva, scavata dai ragazzi, non da lui, perché non ci fosse ombra di trucco ad offuscare il fatto.
In sei spalarono una buca a quadrello, fonda un metro e più, e lunga quasi due.
E poi le indicazioni: una volta andato in catalessi, si doveva calarlo piano con le corde, coprirlo con la terra, da spareggiare con cura, vegliare tutta notte, ché nessuno avesse a dire di oscuri sotterfugi… E poi tirarlo fuori, la sera del giorno dopo, giusto in tempo per lo spettacolo  in teatro.
Solo occorreva lasciarlo stare in camerino, davanti allo specchio, perché si doveva ipnotizzare: alle cinque, almeno per un quarto d’ora.
Ammessi due aiutanti che l’avrebbero portato col lenzuolo, come un cristomorto nel sudario.

Roba da ‘sterici, dicevano le vecchie, oppure da imbroglioni.
I ragazzi, intanto, giravano lì intorno, con brevi passaggi in bicicletta e rapide frenate: dritti in piedi sui pedali, per vedere qualcosa, oltre le teste.
Insomma, nessuno voleva lavorare: mezzo paese se ne stava lì, a fare due ali di corteo al tratto che Salamini avrebbe attraversato in catalessi, chiuso nel lenzuolo. Dal teatro all’orto di Bigìn, dove la fossa aspettava, quieta, appena foderata di fascine verdi.
La Rosa li aveva ben guardati, quegli occhi incantatori, mentre suo nonno salutava l’uomo. Le pareva che fossero infossati, come se avessero vagato per il mondo, stanchi, non  pieni di stupore: vecchi per avere visto troppo.
Era curiosa di quello che accadeva dentro il camerino, stanza che dava da un lato sul cortile, dall’altro nel teatro. E proprio lì c’era una fessura: la Rosa lo sapeva perché glielo aveva detto Regolo, suo zio. Bastava entrare nell’atrio, nascondersi dietro la tenda, poi spostare l’asse e farlo scorrere, piano.

Salamini guardava fisso nello specchio, le mani appoggiate sui bordi del lavandino. Dialogo muto per un po’, poi cominciò a fare gesti in aria e a dire delle cose: le mani giravano, parevano traversare il mare e poi volare in cielo, mani giocoliere, mani burattine, mani di furetto che sgusciano e ritornano.
Le parole, come poterle mai sentire? Erano solo un borbottio.
Erano gli occhi sbarrati a fare più impressione, spalancati e fermi in un punto, vicini al vetro come se avessero voglia di entrare nello specchio.
Poi tutto il corpo diventò di cera, rigido e molle, insieme, e cedette all’indietro, preso al volo dai due ragazzi che gli stavano alle spalle, immobili fino a quel momento.
Avrebbe gridato, la Rosa, ma la gola le restava tutta ingombra perché il cuore voleva uscire fuori e il respiro era finito nelle orecchie, come nei giorni di gran caldo e di cicale matte.

E così Salamini fu interrato, dentro al suo lenzuolo: la terra a coprirlo bene e un cumulo di sterpi in sovrappiù.
Lo vegliarono fino al giorno dopo, con turni da caserma, organizzati.
La Rosa rimase sempre in casa: le pareva di vedere quegli occhi dappertutto, persino nei fiori della passiflora e sulla coda spelacchiata del pavone vecchio, che abitava nel pollaio della Luigina. E ogni volta risentiva quelle capriole in gola, un senso sudaticcio di paura, che non finiva più, neppure quando, grigio e imbambolato, l’uomo fu tirato fuori, salutò, e si bevve un bicchier d’acqua.
Applausi un po’ stupiti e chiacchiere per tutta la stagione.
L’orto di Bigìn fu meta di pellegrinaggi: la buca restò aperta per molti giorni ancora, poi la Matilde seminò il radicchio tardivo, proprio lì, sulla terra sparigliata, un radicchio che la Rosa non volle più né cogliere né mangiare.