Ho ricevuto un dono, un testo inedito di Elia Malagò, un piccolo poema in cinque respiri: del disamore.
Dis è un prefisso potente, capace di orientare il senso. Coniugato con il sostantivo amore, costruisce un sentimento di ritorno, che naviga sotto vento, sotto traccia, fra una “rotta parola” e un “ronzio di silenzio“, direbbe Cesare Pavese. E’ un sentimento che si scopre all’improvviso: incrina la quieta superficie del non vedere, del non ascoltare, del non dire, quando ha già camminato dentro la vita, ha inquinato le ragioni dello stare insieme, ha seminato spine e intermittenze stonate.
Elia, del sostantivo, conserva il segreto e, dal prefisso, trae la suggestione non di uno stato ma di un processo di lenta, insinuante, impercettibile macerazione.
Non dà definizioni che fisserebbero quanto è mobile e progressivo, ne ripercorre, invece, la vena sotterranea: traduce in immagini l’invisibile, la sua “ragione equivoca e livorosa”, ne scioglie (in verbi di cova e di sfaldamento) la sostanza imprendibile, sospesa fra il vapore, il pulviscolo e le scaglie senza forma del pietrisco.
Ci lascia con la sensazione di una muta, inarrestabile colonizzazione: il disamore, nel suo farsi, non lascia niente d’intatto, neppure la memoria dei giorni buoni. Annebbia e svela, consuma pure le orme e i ricordi: “le chiavi sono piccolo rasoio nel palmo di chi resta”.
del disamore
I
lo scopri per ultimo e per caso
il disamore
sotto una lastra sottile di foglie
un poco macere d’acqua di riporto
o una grandinata di mezza estate
su uno sgrondo non curato
s’impasticca di larve e frutti che cadono acerbi
– forse metteranno manti di tigre o
magari faranno nido
in un brusìo –
al riparo svolterà il solito autunno
Lì covano fiele e arsura
il pianto raggelato e
nel fondo
deposita silenzioso
il formicaio del rancore
II
il disamore è talpa insonne che inebria nelle caverne di tufo
smotta e cumula insonora
la cova
dissigilla segreti e sfarina
pulviscolo senza impronte
Poi un giorno di luce né forte né piana
un giorno di questi
bassi su meridiano polso e mediastino
un giorno ordinario che scorre sul binario
e dietro risucchia l’orma di conserva
un giorno che fa somma e non si dispiace
quel giorno lì
spalanca le fauci rapido mostra
III
Cova come tutto il resto
cova figlia e s’invola
foss’anche in cabina guardaroba a sventolo
sulle stagioni e il disordine che tanto
cchessarrammai
doppiare consonanti
abbassare le vocali
spingere l’acceleratore spegnere i fari andare a manetta
a manetta
la manetta della scarpa che morbida calza
-vedi se conta la marca – sfrega il tappeto
e tornisce duro il valgo nell’impronta
IV
e il tempo frantuma in scaglie e pietrisco
un deserto di rose spinate crescono senza mostrarsi
ci sono e lo sai
perché gli occhi anche spinano
la vita va in pezzi piano piano come una cataratta
che si riprende le fughe del pavimento
lentamente le hai perse
fino a non cercarle più
intermittenze senza sussulto
V
tra l’una e l’altra vago il fruscìo
quello che sfonda l’uscio forse più liberato
le chiavi sono piccolo rasoio nel palmo di chi resta
nessun rendiconto
chè nessuno l’ha tenuto
il disamore è ragione equivoca e livorosa
trova un incaglio e depone
come il vapore sui fossi all’alba d’agosto
il deposito dell’ invisibile
come quando hai il nome nella mente
ma la linea che scorre sotto le palpebre
circumnaviga il viso ombra le labbra
e lì sul luminare lascia leggera
la striatura
della lumachella notturna
che insegue l’aura di una goccia
di sete
(Elia Malagò)