• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

colfavoredellenebbie

Archivi Mensili: ottobre 2014

Di Elia

27 lunedì Ott 2014

Posted by colfavoredellenebbie in accompagnamenti

≈ 29 commenti

Ho ricevuto un dono, un testo inedito di Elia Malagò, un piccolo poema in cinque respiri: del disamore.

Dis è un prefisso potente, capace di orientare il senso. Coniugato con il sostantivo amore, costruisce un sentimento di ritorno, che naviga sotto vento, sotto traccia, fra una “rotta parola” e un “ronzio di silenzio“, direbbe Cesare Pavese. E’ un sentimento che si scopre all’improvviso: incrina la quieta superficie del non vedere, del non ascoltare, del non dire, quando ha già camminato dentro la vita, ha inquinato le ragioni dello stare insieme, ha seminato spine e intermittenze stonate.

Elia, del sostantivo, conserva il segreto e, dal prefisso, trae la suggestione non di uno stato ma di un processo di lenta, insinuante, impercettibile macerazione.

Non dà definizioni che fisserebbero quanto è mobile e progressivo, ne ripercorre, invece, la vena sotterranea: traduce in immagini l’invisibile, la sua “ragione equivoca e livorosa”, ne scioglie (in verbi di cova e di sfaldamento) la sostanza imprendibile, sospesa fra il vapore, il pulviscolo e le scaglie senza forma del pietrisco.

Ci lascia con la sensazione di una muta, inarrestabile colonizzazione: il disamore, nel suo farsi, non lascia niente d’intatto, neppure la memoria dei giorni buoni. Annebbia e svela, consuma pure le orme e i ricordi: “le chiavi sono piccolo rasoio nel palmo di chi resta”.

del disamore

 I

lo scopri per ultimo e per caso

il disamore

sotto una lastra sottile di foglie
un poco macere d’acqua di riporto
o una grandinata di mezza estate
su uno sgrondo non curato

s’impasticca di larve e frutti che cadono acerbi
– forse metteranno manti di tigre o
magari faranno nido
in un brusìo –

al riparo svolterà il solito autunno

Lì covano fiele e arsura
il pianto raggelato e
nel fondo
deposita silenzioso
il formicaio del rancore

II

il disamore  è talpa insonne che inebria nelle caverne di tufo
smotta e cumula insonora
la cova
dissigilla segreti e sfarina
pulviscolo senza impronte

Poi un giorno di luce né forte né piana
un giorno di questi
bassi su meridiano polso e mediastino
un giorno ordinario che scorre sul binario
e dietro risucchia l’orma di conserva

un giorno che fa somma e non si dispiace

quel giorno lì

spalanca le fauci rapido mostra

III

Cova come tutto il resto

cova figlia e s’invola
foss’anche in cabina guardaroba a sventolo
sulle stagioni e il disordine che tanto

cchessarrammai

doppiare consonanti
abbassare le vocali

spingere l’acceleratore spegnere i fari andare a manetta

a manetta
la manetta della scarpa che morbida calza
-vedi se conta la marca – sfrega il tappeto
e tornisce duro il valgo nell’impronta

IV

e il tempo frantuma in scaglie e pietrisco
un deserto di rose spinate crescono senza mostrarsi
ci sono e lo sai
perché gli occhi anche spinano

la vita va in pezzi piano piano come una cataratta
che si riprende le fughe del pavimento

lentamente le hai perse
fino a non cercarle più

intermittenze senza sussulto

V

tra l’una e l’altra vago il fruscìo

quello che sfonda l’uscio forse più liberato
le chiavi sono piccolo rasoio nel palmo di chi resta

nessun rendiconto
chè nessuno l’ha tenuto

il disamore è ragione equivoca e livorosa
trova un incaglio e depone
come il vapore sui fossi all’alba d’agosto
il deposito dell’ invisibile

come quando hai il nome nella mente
ma la linea che scorre sotto le palpebre
circumnaviga il viso ombra le labbra

e lì sul luminare lascia leggera
la striatura
della lumachella notturna
che insegue l’aura di una goccia
di sete

(Elia Malagò)

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La vecchia con la retìna

22 mercoledì Ott 2014

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 12 commenti

Qui da noi si parla ancora della vecchia che stava nel casermone con le porte in fila, sbuffi di voci a ogni finestra e l’odore della cucina magra, con l’aglio in fondo come l’alito delle suore.
Era stata picchiata con le altre, ai tempi della mietiliga, quella buttata nella canalona per far dispetto al prete e ai padroni. Da allora si appesantiva la sporta con un chiodo, ché non si sa mai cosa può succedere.
Poi la schiena non fu più giovane per diradare i cipollini: restarono li bugadi longhi da fare a primavera, quando si mandava via l’inverno dai lenzuoli con spazzole di crine.
Nei cortili c’era bisogno di donne dalle mani larghe.
Mentre la lisciva sobbolliva e il bianco della tela si gonfiava, la vecchia raccontava la  risaia e insegnava le canzoni, poi mangiava a tavola, nella famiglia del bucato, con le braccia strette e la vergogna delle mani rosse.
La domenica tornava con i segni della festa: la retina sui capelli, con l’elastico che schiacciava le onde, e il giornale delle donne. Tutto lo recitava, il giornale, dritta sulla sedia, le donne di casa a cerchio, convocate. Bisognava ascoltare, anche se la pentola chiamava … Lo si poteva comprare solo dopo averlo sentito, il giornale, con le notizie doppie in testa.
Allora se ne partiva fiera, con il formaggio grana o un po’ di burro o le tagliatelle fresche del tagliere della domenica, sparite in fretta nella sporta col chiodo. Sulla porta si fermava per dar la mano alla vecchia di casa nostra. “Grazie per la calda parola”-diceva.
E per noi la calda parola ha ancora il sapore di un regalo mai chiesto.

La bambina dello spirù

09 giovedì Ott 2014

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 17 commenti

La porta era già socchiusa, ché la luce avesse da arrivare non dritta e presuntuosa, ma corretta dalla sbiecatura.
Dimmelo ancora, disse la bambina.
Non le bastava l’orma delle braci, capace d’indugiare sul lenzuolo: un caldo di legno e di camino.
Allora la madre tornò indietro, per sedersi a bordo letto e carezzarle la mano.
Manina bella manina, cos’ hai mangiato stamattina?
La bambina si gustava il solletico che sarebbe arrivato di lì a poco. In punta di unghia. Sul palmo.
Polenta e grassiiina, grata grata furmaiiina.
La bambina ritirò la mano con la risata arricciata in gola, da non poter resistere un attimo di più.
Poi girò il fianco, a prendersi il lenzuolo addosso.
E il respiro, che si scioglieva piano, veniva ormai dal sonno e dal tepore, lungo.

La svegliò il silenzio, quello fermo e compatto della notte fonda, quando la civetta non sfrangia più le ore e nella strada non gira il grido della luna. Fu come sentirsi il buio tutto addosso, un’ala pesante, densa di nerume: le gambe di ferro, lente da spostare, e in bocca il sapore un po’ di terra secca.
Neanche una spera d’arancione, la porta chiusa per colpa di chi mai.

Le venne da chiamare forte per farsi prender su, ma il buio le grattava in gola e la voce non voleva più arrivare, chiusa in un guscio chissà dove. Allora invitò il suo braccio, da sotto la coperta.  C’era da toccare tutti i tasti neri, per suonare l’aria con le dita. Per scantare le gambe, che parevano lontane, nei paesi più freddi di quel letto.

Strano trovarlo morbido, il buio.
E tiepido, e senza ragnatele.
Un buio d’acqua: quella dell’estate, scaldata al sole dentro la mastella, con lo zinco che diventava argento.
C’era da farsi legno o scaglia di sapone o palla di neve del viburno e galleggiare lenta. O forse formica avventurosa, lungo i bordi di metallo caldo.

Bella, la confidenza con il buio d’acqua, tutto tentato con le mani, tutto suonato con le mani. Così la musica arrivò, di squilli e fisarmoniche, con le parole piene di sonagli. Arrivò su coda di scoiattolo, con valzer ballerino.

Allo spirù risposero le gambe.
Un po’ su Un po’ giù.
E i fianchi si mossero nel letto, finchè il lenzuolo fu tutto un ingarbuglio.
Un po’ su Un po’ giù.
Che bello fare lo spirù
Adesso si poteva anche cantare, perché la voce si trovava bene nel buio acceso di trilli e piroette. Si mise a ridere da sola, poi lasciò che il sonno spegnesse tutti i passi, tutti i suoni.
Ad uno ad ù.

Occhi, ovvero storie di piazza

03 venerdì Ott 2014

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 17 commenti

Ci son storie fatte solo di occhi e di cenni velati.

Si consumano senza parole al Caffè della piazza.
Tavolini con l’anima di ferro e la mano aperta di fòrmica: i vecchi, padroni delle mattine, poggiano bicchieri e affilano sguardi, fingendo interesse ai giornali.
Tagliano, candidi, ogni donna che passa.

Un bel nastro, quest’ansa di strada dentro la piazza, quasi in bocca al Caffé.
Scorre veloce di biciclette, su gambe cui manca la stoffa, ma non il pudore, sussulta a falcate di imperiosa bellezza, s’increspa di suole ciabatte, a strascico di una borsa della spesa.
Un bel nastro di forme, la strada.

I vecchi approvano con occhi golosi certe fresche rotondità, certe volute di fianchi che apron le vite, scuotono la testa ricordando antichi splendori e virtù difettose.
Avevano bottega e negozio, tenevano la terra e la stalla.
Adesso seguono passaggi e passeggi, tenendo il conto di andate e ritorni.
Potrebbero raccontare di camporelle e di balli in Colomba, fra madresilvia e odore di ciance (taglio fresco del barbiere e piega stirata dei pantaloni).
Ma non dicono.
Ché il silenzio fa viaggi di dentro, sceglie musiche e volti. E tanto è già stato detto.
La vita è tutta negli occhi, ora, ma di ogni muto “vorrei” non va persa neppure una goccia.

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