• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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Misteri

21 venerdì Ago 2015

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Dobbiamo pulire l’orto, noi due, disse il nonno alla bambina, mentre guardavano il buio nel cortile, seduti insieme sopra il gradino di cemento, tiepido perché il sole sostava lì, prima di andare via. Il posto dei gatti a pancia allungata, vicino ai pali d’ortica dei malvoni. E anche il posto dei tramonti fitti di rondini, d’estate.
La faccenda in sé non era d’entusiasmo.
Levare l’erba? e la Rosa già pensava al male dello strappare la gramigna: le mani che si tagliano e si fanno verdi, con le unghie scure. E lo schifo di trovare un rospo che, se ti centra gli occhi con l’urina, è capace di portare via la vista.
A lei piaceva cercare uno stelo lungo e tenerlo dritto fra le mani giunte (i pollici uniti, a fare da conchiglia), e poi soffiare e sentire un suono di raggriccio, da limone mangiato senza zucchero.
Ma no, c’è da spostare le fascine del forno per fare uno spiazzo largo. Viene a seppellirsi Salamini.
La paura di vermi e di rospi in mezzo all’erba non era niente a fronte di quel nome. Perché Salamini, di mestiere, andava in catalessi.
Catalessi.
Alla Rosa la parola piaceva molto molto: prima si era immaginata un tiro di cavalli che portavano un catalesse grande, una carrozza bella, da giostra o da marchesa. Ma quando suo nonno gliel’aveva spiegata proprio a modo, la parola le era piaciuta anche di più: quasi morire, col cuore che batteva piano, il sangue che restava fermo e gli orecchi come foderati…
Ah, ma poterlo vedere da vicino, uno in catalessi, era quasi toccare il mistero con un dito.
Si poteva ben togliere l’erba con piacere se Salamini veniva a seppellirsi proprio  nell’orto dietro il forno, con la parete grigia e il cyssus che saliva in alto e poi si staccava, pendulo, nel vuoto.

A vederlo, quell’uomo magrolino, nessuno gli avrebbe dato un centesimo di stima: giacchetta spiegazzata, gli occhi con due mezze lune tristi, scarpe piene di polvere, quasi fosse arrivato a piedi da lontano. E invece veniva da Mantova, in corriera, con la valigia e basta: la gente lo aspettava per la strada, perché ormai in paese lo sapevan tutti che veniva a seppellirsi per due giorni nell’orto di Bigìn e dopo, forse, avrebbe ipnotizzato una gallina. Dura stecchita, con l’occhio a uovo sodo.
La Rosa era pronta fino dal mattino: nell’orto non c’era neanche un bruscolino e l’erba sembrava pettinata.

Salamini arrivò nel primo pomeriggio: poche parole, ma imperiose.
Una fossa, serviva, scavata dai ragazzi, non da lui, perché non ci fosse ombra di trucco ad offuscare il fatto.
In sei spalarono una buca a quadrello, fonda un metro e più, e lunga quasi due.
E poi le indicazioni: una volta andato in catalessi, si doveva calarlo piano con le corde, coprirlo con la terra, da spareggiare con cura, vegliare tutta notte, ché nessuno avesse a dire di oscuri sotterfugi… E poi tirarlo fuori, la sera del giorno dopo, giusto in tempo per lo spettacolo  in teatro.
Solo occorreva lasciarlo stare in camerino, davanti allo specchio, perché si doveva ipnotizzare: alle cinque, almeno per un quarto d’ora.
Ammessi due aiutanti che l’avrebbero portato col lenzuolo, come un cristomorto nel sudario.

Roba da ‘sterici, dicevano le vecchie, oppure da imbroglioni, prenderà pur qualcosa per addormentarsi.
I ragazzi, intanto, giravano lì intorno, con brevi passaggi in bicicletta e rapide frenate: dritti in piedi sui pedali, per vedere qualcosa, oltre le teste.
Nessuno voleva lavorare: mezzo paese se ne stava lì, a fare due ali di corteo al tratto che Salamini avrebbe attraversato in catalessi, chiuso nel lenzuolo. Dal teatro all’orto di Bigìn, dove la fossa aspettava, quieta, appena foderata di fascine verdi.

La Rosa li aveva ben guardati, quegli occhi incantatori, mentre suo nonno salutava l’uomo. Le pareva che fossero infossati, come se avessero vagato per il mondo, stanchi, non  pieni di stupore: vecchi per avere visto troppo.
Era curiosa di quello che accadeva dentro il camerino, stanza che dava da un lato sul cortile, dall’altro nel teatro.
E proprio lì c’era una fessura: la Rosa lo sapeva perché glielo aveva detto Regolo, suo zio. Bastava entrare nell’atrio, nascondersi dietro la tenda, poi spostare un’asse e farlo scorrere, piano.

Salamini guardava fisso nello specchio, le mani appoggiate sui bordi del lavandino. Dialogo muto per un po’, poi cominciò a fare gesti in aria e a dire delle cose: le mani giravano, parevano traversare il mare e poi volare in cielo, mani giocoliere, mani burattine, mani di furetto che sgusciano e ritornano.
Le parole, come poterle mai sentire? Erano solo un borbottio.
Erano gli occhi sbarrati a fare più impressione, spalancati e fermi in un punto, vicini al vetro come se avessero voglia di entrare nello specchio.
Poi tutto il corpo diventò di cera, rigido e molle, insieme, e cedette all’indietro, preso al volo dai due ragazzi che gli stavano alle spalle, immobili fino a quel momento.
Avrebbe gridato, la Rosa, ma la gola le restava tutta ingombra perché il cuore voleva uscire fuori e il respiro era finito nelle orecchie, come nei giorni di gran caldo e di cicale matte.

E così Salamini fu interrato, dentro al suo lenzuolo: la terra a coprirlo bene bene e un cumulo di sterpi in sovrappiù.
Lo vegliarono fino al giorno dopo, con turni da caserma, organizzati.

La Rosa rimase sempre in casa: le pareva di vedere quegli occhi dappertutto, persino nei fiori della passiflora e sulla coda spelacchiata del pavone vecchio, che abitava nel pollaio della Luigina. E ogni volta risentiva quelle capriole in gola, un senso sudaticcio di paura, che non finiva più, neppure quando, grigio e imbambolato, l’uomo fu tirato fuori, salutò, e si bevve un bicchiere d’acqua.
Applausi un po’ stupiti e chiacchiere per tutta la stagione.
Alla Rosa restò un senso inespresso di mistero, la certezza di non poter capire. Quella e altre cose ancora.

L’orto di Bigìn fu meta di pellegrinaggi: la buca restò aperta per giorni e giorni ancora, poi la nonna seminò il radicchio più tardivo, proprio lì, sulla terra sparigliata, un radicchio che la Rosa non raccolse né mangiò, mai.

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La bambina della Morgana

12 mercoledì Ago 2015

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Come cerva che assetata
brama l’acqua di un ruscello
Entrò cantando, l’uomo coi capelli grigi. Nella bottega attaccata al forno, con le spose a fare fitto, nell’attesa del pane.
La bambina vide suo nonno diventare allegro, come quando la domenica prendeva lo sgabello e andava a predicare sul sagrato.
Fu svelto a sciogliere il grembiule e a rispondere con l’abbraccio dello stesso inno, ma appena sussurrato,
così l’anima turbata
con speranza volgo al ciel
E ancora si abbracciarono e uscirono insieme, nel cortile: la porta del negozio spalancata e le donne a bocca aperta. Aspettavano coppie, crocette e schiacciata. E invece lì, a far le statuine.
Doveva ben esserci qualcosa, perché Bigìn mica era uno da prendere e andare, senza dire né come né quando.

La Matilde sbatté la cesta sul banco, quasi i pettegolezzi fossero cornacchie da stornare col rumore, e poi, giù, grandinate di pane nei sacchetti e neanche una parola.

La bambina era un poco incerta se tener dietro a suo nonno oppure no. Seguirlo era avere gli occhi della vecchia piantati nel coppino, ma stare lì, a guardarla, era perdersi il nuovo.
Allora si mise con la scopa a spazzare briciole e farina fra i piedi delle donne.
-Ah, che non mi sposo più, disse la grassa con la voce in gola, e le altre a ridere a ridere.
-Fuori, fece la Matilde, tutta risentita.

Era quello che voleva. La bambina infilò tre piroette e traversò il cortile fino alla porta di lato del teatro, quella che dava sull’orto: suo nonno stava dicendo sì, che andava tutto bene, che si poteva fare, che non c’era bisogno d’aspettare. Allora l’uomo coi capelli grigi, la donna ed anche una bambina cominciarono a portare le casse nel teatro, scaricate piano piano dalla pancia del carretto.

-Avremo i burattini domenica, in teatro. Ci costeranno niente, disse suo nonno, a tavola.
La parola niente regalò al suo piatto un altro mestolo di riso, che sua moglie elargì di buona grazia. La bambina prese quel gesto quasi per sorriso.

Dalla porta piccola del teatro, veniva l’odore di chiuso, un fiato di velluto vecchio e legno umido.
E di polvere che usciva o entrava.
Un senso di segreto rivelato, ché, a vederlo di giorno, il teatro, era come entrargli nel fianco, con una fitta di luce a tradimento, quella che mostra macchie e crepe.

La bambina non era ben convinta che ci fosse del bello in quella cosa: si mise a guardare.
Sul palco, un baldacchino rosso, facile come nei disegni: una finestra, sotto un tetto appena profilato e i burattini con la testa bassa, poggiati a cavallo, come asciugamani.

La donna si sedette vicino alla bambina, coi gesti indicò la gola: era senza voce e parlava come con le piume in bocca.
Poi le fece ssssh.
E fu la fisarmonica, con una musica che non aveva mai sentito, una musica che diventava tutta pelle d’oca e voglia di cantare e muovere le gambe, le mani, la testa.
Come Fagiolino che cercava la sua dama.
La bambina aveva gli occhi grandi. Tornò alle prove ogni giorno, vicino alla donna con le piume in bocca.

La domenica, la Matilde era in prima fila, inquieta, con la poltrona vuota accanto. Dov’era la bambina? Dalla Ghelfa a comprare le carrube?
Poi il buio. E la fisarmonica. E una voce sottile, quella voce sottile che conosceva bene…
La fata Morgana
Sarà a te vicino,
Nessuna tema
Mio buon Fagiolino…
Corri, vola…
La principessa t’ attende
Da te dipende
La sua libertà.
Da te dipende
La sua libertà.

La bambina del pane

02 domenica Ago 2015

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Il bello dell’andare a letto presto era poi quell’alzarsi dentro il buio chiaro, nel giorno che è sul punto di arrivare: d’inverno è nebbia e latte, col caldo è odore di promessa, di madresilvia o di peonia bianca.

La bambina scendeva per le scale e si sedeva sull’ultimo gradino: le piaceva ascoltare di nascosto suo nonno che cantava dentro al forno con un filo di voce infarinata.
Cosa cantasse non si sapeva dire: c’erano angeli, in giubilo a Betlemme, e un pastore ricco di pecore contente, c’era pure un ceppo secolare e l’antico tentator, armato di furor e inique frodi, forse dentro la forte rocca, e poi mani, mani levate al cielo.
Bellissime parole, che sembravano miracoli o magie, come le rosette, così smorte, in fila sulla pala, e poi, vicino al fuoco, eccole gonfiarsi e tendere la crosta (il bottone sul punto di scoppiare).  E prodigio era l’odore cotto, di panni puliti e caldi, di acqua evaporata sul muro dell’agosto.

-Perché canti?, chiedeva a volte la bambina.
-Per aiutare il lievito a salire, era la risposta.
La bambina lo domandava apposta, giusto per ridere con lui.
L’aveva visto su un giornale vecchio, quell’uomo col turbante: suonava un piffero un po’ strano e i serpenti si alzavano dal paniere con la testa dritta. Anche suo nonno era un po’ fachiro, fachiro di ciambelle e di rosette.

-Voglio imparare anch’io, diceva a bassa voce, il pane e gli inni, tutto insieme.
E il vecchio se la prendeva in braccio,  così piccola e scura fra i sacchi di farina.
-Il pane te lo insegno, ma tua nonna mica è poi contenta se tu canti  per casa le mie cose. Lei corre dietro a un altro campanino, alle sottane dei preti e delle suore. Lo sai che vuol  comprarsi il paradiso…

-Sei magro, allora lei diceva per mandare via i pensieri brutti, i musi o i silenzi o le sgridate dei giorni  che la nonna era rabbiosa per la sfortuna dentro la sua casa, un figlio andato chissà dove e l’altra con la pancia ancora grossa: giusta sacrosanta punizione, da trombe del giudizio, perché mai si era sentito di due fedi sotto lo stesso tetto, due chiese e due bibbie e quelle parole matte. Ché lei era sicura di cambiarlo, per questo se l’era anche sposato, lei, vedova contesa, che portava in dote un cavallo bianco e tele sottili come l’aria. Ma lui invece, macché, sempre nel peccato col suo Valdo…

-Son magro perché ogni parca cena manda in letto, e di colpo snebbiava le paure che leggeva dentro, dai che tua nonna è anche brava, sai,  e il suo paradiso avrà un buon odore come il mio. Forse lo stesso pane. E adesso  ti insegno a sceglier la farina.

Bisognava pizzicarne un po’ e stringerla forte fra le dita: aveva da restare appiccicata e fare consistenza. La farina troppo sfragolona è debole, quasi non ha susta e il lievito lo sgugna: non tiene niente e non dà niente. Come il tempo speso a litigare.
Ogni sacco veniva visitato nel gioco di spizzichi e presine: il verdetto stava scritto sulle mani.
Era tutta buona, la farina.

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