• Pesci di nebbia

colfavoredellenebbie

~ I racconti non finiti, le schegge di parole, le arie che si fischiano, le conte e gli scongiuri, che non hanno padri né nomi, sono pesci di nebbia dolce: nuotano e svaniscono.

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Poi ci fu l’estate degli amori sfiorati

16 mercoledì Set 2015

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

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Poi ci fu l’estate degli amori sfiorati.
Un’estate  placida, da quasi delta del Po: col fiume a far le prove, largo e pigro, pronto ad aprire una zampa d’anatra, là in fondo, fra barene verdi e canne ad orlo.

Di mattina c’era da esser svelti, con la vecchia Maria tuttofare che ribaltava i letti ciabattando (tante ci cigolanti e zeta a staffilata nel suo dialetto), ma nel dopopranzo arrivava la pigrizia dei conversari lunghi con la zia, delicata addetta a togliere paure.
Si cominciava con la scusa dello sparecchiare e si finiva col parlare, io e lei, fra la schiuma dei piatti nel secchiaio: pause a bagnomaria ed eterne asciugature, perché la zia coltivava incantamenti lievi pur fra resti di salsa e bucce di pesca.
Si diceva solo a lei quello star male nuovo, la vergogna che prendeva a strappo, il non piacersi mai dentro lo specchio, la voglia di scappare e insieme di restare.
Si chiedeva solo a lei se crescere era davvero quella cosa lì: il non tener mai ferme le cose. E il non sapere.

Ma poi il pomeriggio andava verso sera.
C’era da uscire, giusto per prendere un poco confidenza con la piazza del paese oltre il ponte.
Si andava apposta nella merceria grande, con le commesse fini e il figlio padronale con la barba, occhi attenti sotto le ciglia. Li sentivi addosso silenziosi, come un accompagnamento leggero: speravi solo d’incrociare in fretta il vetro della porta, per vedere riflessa l’attenzione e capire se gli sguardi arrivavano gentili. O no.
Cosa dicevano mai gli sguardi, poi…
Il ragazzo della lambretta l’aveva ben trovata la sua donna vegé e la stringeva forte, al cinema, nel buio.

“Ma quando quello giusto arriva, come capisco io che è proprio quello vero? Che sicurezza c’è che non mi sbaglio? Se poi ne viene un altro?” – lo chiedevo piano a  miazia, perché la faccenda era tutta lì. Capire chi. Non poca cosa. Ci fosse almeno un piccolo preavviso, un cenno di avvertenza, un segnalino…
Mi pareva che al mondo la più bella cosa fosse che uno arrivasse cantando “Io che non vivo più di un’ora senza te”, e, allora, fatto.
Miazia rideva. “Va’ là che lo capisci”, e nei giretti in auto verso sera, coi bimbi costipati nel sedile dietro, si faceva il gioco del primo che passava. “Il primo che arriva in bicicletta diventa tuo marito, il primo che arriva in lambretta diventa tuo marito”. Ma quello in lambretta, con il suo segreto, non importava più. Ché, a quattordici anni, si cambia all’improvviso e l’ombra delle cose è sempre a mezzogiorno.

Fra dubbi vagabondi e pedalate sotto il sole, l’estate se ne andava quieta, con le sagre messe apposta a  fine  agosto, per dare una mano alla malinconia.
“Mettilo il vestito azzurro, che ti sta bene. Sii disinvolta.”- la zia toglieva pesi ma ‘disinvolta’ era parola grande… troppe cose, tutte quante insieme.
Già andare a ballare per la prima volta, sotto lo sguardo avvoltoio di vicine custodi, era scalare una montagna contro vento. Con quel vestito corto, poi, arrivato in corriera con urgenza, nel suo piquet celeste cannettato e pure con la sfiancatura e le maniche sparite.

Andai al ballo, come accade nei racconti, lisciata e rifinita dalla zia, laccata di vernice trasparente.
Dura e impietrita.
Neanche a tavolino. In piedi, per non spiegazzare il vestito.
E con la regola ben chiara: “Di’ qualche no e qualche sì”- aveva detto miazia.
Saperla, la misura.
Obbediente contavo,…sei…sette no. Ora si poteva accettare un invito? Le mie custodi ballavano e io non ero più così sicura che fosse giusto licenziare le richieste insistite , con sorriso gentile e negatore.
“Venisse il figlio padronale, con lui sì che proverei”- mi dicevo- “Venisse il figlio padronale…”.

E venne.
Lo vidi lontano staccarsi dal suo muro e muoversi con indolenza lenta, sicuro di essere il più bello.
“Vuoi ballare?”
Tutto diceva sì, ne son sicura, ma le parole presero un’altra strada: uscì un improvvido tremolante bisbiglioso “Non so ballare”, che implorava insistenza o il tempo di un respiro di ripresa.

Il figlio padronale girò i tacchi.
Leali urlava A A A chiiiiiiiiiiiiiiii.

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Vegé

06 domenica Set 2015

Posted by colfavoredellenebbie in Uncategorized

≈ 18 commenti

L’estate al paese che aveva lo stesso nome dell’altro (uno di qua, uno al di là del Po) cominciava ad essere sognata e vissuta d’inverno.
Si andava in ricognizione, prima delle feste, per gli auguri e gli accordi di giugno e di luglio: nel pezzo di famiglia che stava lì, la radice sarmentosa finita quasi sul delta, quasi vicino al mare. Quasi.
Studiare a Ferrara rendeva facile prendere la corriera per tortuosi territori dai nomi croccanti, pieni di erre. Persino gradevole.
Si cambiava stazione e con questo si assumeva un’aria molto segreta coi soliti compagni di classe e di viaggio.
“Dov’è che vai? Non vieni a casa, oggi?”
“No, prendo la corriera”.

Certo che non andavo a casa: sennò mica mi sarei messa la gonna corta con gli scacchi grandi bianchi e neri; e i mocassini di vernice; e il golfino nero che faceva tutto un giro strano attorno alla vita e si allacciava di dietro.
Se una si veste così, ovvio che lo fa per qualcosa.

Se davanti a scuola non compariva mio zio, bello e geometra, praticamente GregoryPeck, a prelevarmi e a portarmi a destinazione, non era così terribile prendere la corriera; sì, era più sconquassona del treno, con un odore fra la cimice e la benzina cotta, ma se ti sedevi giusto dietro all’autista, ti vedevi nello specchietto: come al cinema, figura intera.
Così potevi controllare se le gambe stavano meglio accostate e oblique, sotto gli scacchi della gonna, o scompostemapudìche, col piede un po’ rovesciato in fuori. Anche la frangia si poteva tenere d’occhio, salvo cambiare direzione se lo sguardo incrociava quello non così distratto dell’autista.

A qualunque ora arrivassi, il paese era uguale: bastava costeggiare la strada fra l’argine e il canale per stare bene, perché le donne, dalle case basse e dalle porte aperte e fiduciose, mi riconoscevano e mi davano la voce dicendo il mio nome.
E nella casa coi gradini davanti c’erano i bambinicugini in avanscoperta e la zia che aveva voglia di chiacchierare fitto fitto, da subito, e il pannello azzurro coi buchi svedesi e la stanza con i palloncini che era una vera stanza per ragazzi, non una stanza da vecchi adattata, una vera stanza per ragazzi.
E c’era la Dina mianonna.

La Dina mianonna stava qui da quando aveva salutato il suo uomo per sempre.
Tornava poco nella casa grande: lì, al buio, di notte piangeva.
Qui, nella casa quasi vicino al mare, non si poteva piangere: c’era troppo da fare, c’erano troppi bambini, quattro di casa, poi quelli aggiuntivi, mimetizzati come cavallette in ogni angolo.
C’era tutta la gioia che si poteva desiderare nella casa di quasi mare, dove lo zio, bello e geometra, aveva sempre un bambino in braccio.

Era l’ingresso in un altro tempo, senza orari definiti per il pranzo e per la cena, in una casa dove non ero piccola, in una casa col pollaio e la lavanderia e la pergola.
Sotto la pergola era facile  parlare coi ragazzi della strada che, quando ero lì, avevano  da chiedere consigli a mio zio.
Sotto la pergola, la sera chiara, arrivava il figlio del guardiano, coi ricci lunghi sul collo e la lambretta.
“Mi piace la donna vegé”, aveva dipinto  sull’alettone…
Non sapevo cosa significasse, ma era certo che avrei voluto essere molto, molto vegé.
E questo pensiero mi accompagnava, morbido e ronzante, nel resto della sera, quella scura.

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