La sposa aveva i bigodini in testa.
E i jeans, gli zoccoli e la maglietta nera: quella che a lui piaceva tanto perché aveva lo scollo da madonna e la pelle sembrava ancor più chiara.
Erano le sette del mattino e il cielo era sgombro, di un pulito che pareva lustrato con la pomice.
Bisognava fare le tartine, mentre il padre avrebbe curato la regia di tavoli e tovaglie nel giardino di Villa Bisighini, prestata al bisogno senza storie.
La madre a casa, perché era commossa e c’era da accogliere i parenti.
Lo sposo suonò alla porta: sorriso d’intesa, multiplo e abbondante, zoccoli e camicia a quadrettoni.
Bellissimo, pure di mattina, e calmo, anche se la porta del bagno era ancora da montare e non si sapeva se i pasticcini sarebbero arrivati per tempo. Da Mantova, in corriera.
Carbonara era lì, a pochi chilometri di strada: gli amici già al lavoro.
Il padre, con piglio da caserma, cominciò a dirigere spostamenti e pulizie.
Le tavole fra gli alberi fiorivano come margherite di lino e porcellana, perché va ben una cosa campagnola, ma con la finezza dell’apparecchiare.
Che non sembri la festa di partito, con le bandiere rosse e tutto quanto, aveva implorato la madre, preoccupata, perché già aveva dovuto digerire l’assenza di bomboniere e partecipazioni: solo bigliettini scritti a mano dalla figlia, con l’inchiostro di china…

Villa Bisighini sorrideva a tanto brulichio.
La Lia era maestra di tartine: tutti col coltello in mano per spalmare multistrati di salse profumate e rapidi passaggi di tartufo, regalato alla sposa come omaggio. Collane di uova sode al gusto di paté, sfogliatine al profumo di formaggio, creme di tonno montate come spuma, fantasie di verdure ed affettati: una gioia per gli occhi e il palato, anche se la sposa non riusciva nemmeno ad assaggiare, persa nel dopo ancora da arrivare.
Faceva tanto caldo e di colpo si materializzò il sogno dell’Artide e del ghiaccio.
Serve un camion frigorifero?
Un compagno del padre, sua sponte, era arrivato per caricare tutto su un gigante bianco: il suo dono aggiuntivo con sorpresa.
Però.
Il cielo cominciò a perdere limpore: nubi a raduno, molto, molto grigie.
Un temporale al galoppo. Senza preavviso, mentre la chiesa improvvida batteva gioiosa il mezzogiorno.
Al padre si afflosciò tutta la regia, alla sposa perfino i bigodini.
Piatti bicchieri immenso tovagliame … il tutto affogato sotto un’acqua a rovescio, mentre in un corri corri generale si spostavano tavoli in precari, funambolici equilibri, dentro la villa, nell’andito, piano B mai preso in considerazione. Mica può piovere il 25 luglio! Appunto.
La sposa fu portata a casa, umida e moscia: ad attenderla una madre in pianto greco, che ripeteva a le cinco de la tarde non si sposa e non si parte, addomesticando Lorca a modo suo.

Ma poi si sa che le fiabe sono vere …
Le donne del paese vennero in fila a prendere tovaglie e tovaglioli: asciugarono tutto con le ferrine calde e tornarono a sistemare lo stoviglie, ora luccicanti per l’ennesima sfregata, con un regista ammansito dalla pioggia e dall’effetto.
Alle cinque del pomeriggio anche il sole non si perse la festa: lo sposo montò la porta del bagno, uscì per ultimo di casa, fra gli applausi dei bambini che contavano i minuti, scommettendo perfidi sui tempi. Corse ad attendere la sposa, in chiesa, per il rito, sperando che i testimoni non si fossero perduti. Anche gli amici arrivarono un poco trafelati, uno in ciabatte perché le scarpe chissà dov’erano finite, durante il temporale.

Anche la sposa arrivò, a testa nuda ma zampettando su improbabili scarpini: i primi col tacco, dopo secolari mocassini …, giusto per essere all’altezza della situazione.

Sono tanti anni che ripasso questa nostra giornata e ogni volta torna la solita colonia di pesci guizzantini fra petto e gola.

Oggi di più.