L’aria era dolciastra di ciance, resti grinzosi di barbabietole sfrangiate .
Uscivano dallo zuccherificio sui rimorchi e lasciavano sulla strada strie bavose di lumaca, umide di un odore grasso, rotondo e caldo.
L’odore di ciancia saturava il naso e la testa, sembrava arrivare in tutte le parti del corpo.
Era più quieto l’odore delle barbabietole bagnate, sui carri infilati l’uno dietro l’altro, ai bordi delle strade- nervature che portavano allo zuccherificio.
Tanti carri, tanti camion e tanti uomini, concentrati nella strada grande e nelle vie piccole in attesa dell’accesso.
Ti svegliavi la mattina con le voci sotto il balcone e dovevi stare attenta per non farti vedere fra le fessure rosa della laghestroemia, così, con la camicia della notte, leggera.
Avevano sguardi invadenti, gli uomini, e invadenti erano i carri che neanche lasciavano vedere le finestre basse della casa di fronte: un esercito di barbabietole, una occupazione straniera.
E se volevi andare dalla lattaia , dalla Elsa lattaia che sembrava una gnoma buona col corpo poggiato su gambe a polpa di rana, dovevi zigzagare in mezzo a tanfi di sudore e di vino e braccia nude e certe parole che facevi finta di non sentire e certi manifesti o foto attaccate ai vetri dì camion di donne spogliate e tettute, che non c’era confronto.
La stessa cosa se dovevi andare dalla Luciana magliaia. Sarta al bisogno, era stata eletta a segreta custode dei nostri transiti di abiti, da quando, nella casa, la famiglia non era più quella di prima.
La famiglia grande era sfragolata via, sciolta in bocca come la grana grossa di una torta sbrisolona, mangiata dall’età dei vecchi e dalle partenze dei giovani. Ma ancora ne restava il dolce, a tavola, quando da ogni cosa o gesto o parola usciva il nodo di un richiamo. Solo, non sapevi se avresti trovato, dentro, una mandorla buona o un grumo di farina gialla, senza troppo sapore.
Andare dalla Elsa lattaia o dalla Luciana magliaia era la mia prova di disinvoltura, che preparavo con minuziosi piani, per vincere rosolanti vampate di vergogna.
Perché le vergogne erano molte. E montanti.
Il naso, ad esempio.
Antico, diceva la Rosa miamamma, per consolarmi. Antico. Ma cosa se ne fa una, a tredici anni, di un naso antico…
E il petto, che cresceva mortificato dalla schiena, apposta incurvata fra i gomiti stretti, per nasconderlo.
E le gambe nude, a cui non mancava il pudore della stoffa, ma che la bicicletta scopriva e non c’era niente che si potesse fare se non l’andare a piedi.
Sul petto, in particolare, gravavano preoccupazioni grosse.
“Un sostegno”, diceva miamamma, con grande soddisfazione della Leda miazia di piazza, la più mondana delle mie zie, in visita perenne, che già profilava all’orizzonte le calze fine.
“Ci vorrebbe un sostegno”, diceva miamamma, attenta a non farsi scappare la parola impronunciabile, innominabile, quella che bastava a sollecitare le mie rabbie secche e i miei mutismi di cemento.
Ma cosa c’è da reggere, se si vuole cancellare, fasciare, rimpicciolire, o, meglio ancora, nascondere assolutamente? Ah, il sogno della mummia….
Cosa c’è da reggere, se poi c’è da ammettere che si è saltato il fosso?
Ignorare bisogna, per restare nella sospensione, per non dover fare domande che urgono, ma che restano lì, a strati, senza parole capaci di dirle.
Dal giorno in cui era cambiato qualcosa e miamamma, con una confidenza che non volevo, mi aveva parlato a voce bassa, fra me e il mio corpo non c’era più allegria, non sapevo più cosa mi riservasse né quando.
C’era da vivere con un altro tempo, che aspettavo a orologi strani: la testa con il caldo dentro, il male alla schiena, gli occhi intorbiditi.
E la malinconia….come se, nel corpo, nel cuore, scorresse una vena tiepida che scioglie i pensieri, toglie i confini, e lo star bene e lo star male non hanno più bordi, ma impigriscono nel medesimo stagno.
Era meglio prima. E non volevo segni definitivi, io, e rispondevo male anche alla Luciana magliaia, alleata di miamamma, nella crociata dei sostegni.
Molto meglio i miei metodi: fingere che non era cambiato niente.
Passavo fra i camion misurando per un attimo le distanze con gli occhi.
L’importante: non fissare in faccia nessuno, non cercare gli sguardi, e magari concentrarsi su un gioco.
Era in quei momenti che scommettevo con me stessa: se vedo un chiodo arrugginito per terra, se le ombre sono almeno sedici, da qui a là, va tutto bene, e anche se sono sedici gli alberi.
Rassicurante il mio mondo da contare, un mondo esatto che assorbiva tutti i pensieri e le paure, da raddoppiare coi multipli per farlo durare di più.
Sì, perché se ero sicura di avere davanti un tratto lungo, alzavo la posta : trentadue, sessantaquattro, centoventotto. Erano belli questi numeri, perché, a dividerli per due, si arrivava a uno. Il più bello e irraggiungibile era duecentocinquantasei.
Non ero neanche arrivata a contare trentadue sassi con la punta, quando la mano, da dietro, mi sfiorò l’attaccatura dell’orecchio, con la carezza dell’indice contro il collo, lenta.
E il calore sembrò venire, assieme alla vergogna, da luoghi lontani.
“La ga la pel ad persac, la putleta”, rideva l’uomo coi peli rossi.
E io lì, coi miei numeri spezzati, non sapevo se ridere o se piangere, con tutto il sangue del corpo in faccia; io non la volevo la pelle di pesca e non volevo che nessuno la vedesse e ridesse e mi toccasse.
La Diana mica la toccavano, se passava, le fischiavano dietro, perché lei era già arrivata…, non era un po’ e un po’. Con lei nessuno si prendeva una confidenza così.
A chi sta in mezzo, invece, tutti si sentono in diritto di fare persino una carezza, di dire qualcosa.
“Me lo metto, il reggipetto – dissi tutto d’un fiato alla Luciana magliaia – però sopra la canottiera”.