Ci sono vocazioni che nascono sotto le volte di una chiesa, coi cori angelici in visione, le trombe del giudizio e un profumo di viole tutt’intorno. Altre, le portano i sogni, ‘na squasadina ad niula, un tremito di nuvola ad indicare la strada. Poi ci son quelle che fioriscono improvvise, incantate da forme di bellezza, e allora scoppiano col vigore delle bergenie rosa a primavera. Ma che fosse il canto di un gallo, una mattina, a dire cosa fare della vita, non si era mai sentito.
Eppure per Ivano andò così.
Il silenzio della notte che si fa mattina, in quel ricciolo di terra in mezzo alle robinie, era un cartone spesso: occorreva il gallo a tagliarlo, secco, col suo grido di esultanza e colonìa.
Era un canto sicuro, di voce che non trema: di luce e di possesso, di forza e, insieme, di controllo, come a dire al mondo intero io ci sono e tu sei mio. A cominciare dal pollaio, che si svegliava in modo un po’arruffato, fra borbottii di cova e schiocchi di ali da scrollare nel salto breve dal trespolo al terreno…
Per Ivano quel canto fu quasi una chiamata: sapere che il mondo si poteva conquistare, senza neppure salire sopra il tetto di un pollaio. Bastava tirare fuori tutto il fiato, ad ugola spiegata, e cantare la giusta melodia, provare nella voce un senso di potenza e libertà.
Lo disse alla moglie, mentre la donna puliva le gabbie dei polli in batteria, la spazzola di ferro, due tafani precoci a ronzare come calabroni, e il sole tenuto a bada col cappello, prima che trasformasse l’odore in un tanfo così giallo da raspare in gola.
Devo cantare anch’io.
La donna lo conosceva, suo marito.
Davanti a una pesca nettarina, sognava un frutteto con gli ombrelli di rete ben drizzati, anche se il conto in banca era stremato, dopo l’autunno della peste. I pulciotti a poche settimane tutti lì, con le piume opache e la debolezza nelle zampe: seduti come dei pinguini, buoni soltanto a bere a garganella e a reclinare il collo a becco aperto. Una morìa. Ma l’Ivano s’era mica spaventato: si era fatto un setaccio, pronto già a giurare che, se c’era l’oro in Adda, doveva ben esserci anche in Po, ché il grande, sul piccolo, la vince e all’uomo non resta che provare.
I soldi, invece, in banca li aveva prestati suo cognato e la peste pian piano se n’era andata via, i tacchini messi in quarantena, perché la colpa era tutta loro.
La donna lo conosceva, suo marito. Solo gli disse: se vuoi cantare, canta, ma il lavoro si manda avanti insieme.

La maestrona aveva un pianoforte a coda e, mentre pensava a farsi suora, insegnava canto e solfeggio a chi voleva. Sudava, sudava tanto: una luna scura sotto l’ascella e certe camicette impiccate al collo, anche d’estate, e un po’ tirate sopra il petto forte.
Tenore, sentenziò, rapita nell’ascolto di O Sole mio, che Ivano sapeva da bambino. Tenore lirico spinto, da impostare bene. Con quel torace tutto da sfruttare.
Ivano tornò a casa impettito di do e battagliero, pronto a graffiare baritoni assortiti per salvare soprani sul punto di cedere al peccato.
Andò a lezione tutti i giorni, per tante settimane, nelle ore morte dal lavoro.
Poi fu tutto un provare e riprovare, in ogni situazione: mentre dava alla vite il verderame, mentre girava il pastone per i polli o metteva i pulcini in sicurezza, nelle ceste più fresche sotto il fico.
Gli spartiti fissati sul tronco del pioppo, come mappe per pensieri e voce.
Le anatre stupite, specie le mute, indecise fra il cortile e il fosso da indagare.
A far da sottofondo il rollo del landini, nei giorni della trebbiatura.

Un pezzo della Tosca. Mariocavaradossi ormai nel sangue. C’era da cantare alla fiera di settembre, il prete ormai convinto che il sacrato potesse ospitare l’aria di un amore più terragno.
Si ridacchiava in paese, nell’attesa, ma nessuno pensava che a decidere fossero i bambini.
In prima fila, e tutti col limone, succhiato con lingua viperina a danno del tenore, denso di saliva.
Ivano, con la sciarpa al collo, gorgogliò la scusa di un’improvvisa afonia.
Tornò a casa, con la moglie dietro e l’orgoglio sanguinante, eppure la sera era tanto bella, annunciata dal gallo che calava le vele del pollaio.
Fu un guizzo d’amor proprio, un lasciare che la passione trovasse la sua via: l’aria, il gallo e i polli, il gatto a coda ritta, ogni presenza viva presa nel giro della voce…

E lucevan le stelle
e olezzava la terra,
stridea l’uscio dell’orto
e un passo sfiorava la rena.
Entrava ella, fragrante,
mi cadea fra le braccia.
Oh! dolci baci, o languide carezze,
mentr’io fremente
le belle forme disciogliea dai veli!
Svanì per sempre il sogno mio d’amore…
l’ora è fuggita,
e muoio disperato!
E non ho amato mai tanto la vita!

Il sogno non svanì: fu il rito quotidiano per iniziare il giorno e chiuderlo in amore, sempre, da re, dentro la sua corte.